Festival di Cannes 2012 – Bilancio
Finito il Festival di Cannes 2012, cerchiamo come sempre di tracciare un bilancio, di capire cosa resterà tra qualche mese o tra qualche anno. La Palma d’oro di Haneke era scritta nelle stelle, chiara a (quasi) tutti dopo la prima proiezione…
Oltre il glamour
E anche la sessantacinquesima edizione del Festival di Cannes è andata. E noi siamo sopravvissuti. La vita festivaliera è una dimensione altra rispetto alla vita reale: è una questione di ritmo, di intensità, di stanchezza e di adrenalina. E di visione d’insieme, giusta o sbagliata che sia.
Finito il Festival di Cannes 2012, cerchiamo come sempre di tracciare un bilancio, di capire cosa resterà tra qualche mese o tra qualche anno. Proviamo a partire dai premi: la Palma d’oro a Amour di Michael Haneke era scritta nelle stelle, chiara a (quasi) tutti dopo la prima proiezione. L’unico ostacolo, al limite, poteva essere Moretti, non esattamente un fan del cinema del regista austriaco. Forse altre scelte sarebbero state più coraggiose, meno scontate, come Beyond the Hills di Cristian Mungiu, comunque premiato per la sceneggiatura e la miglior interpretazione femminile (Cosmina Stratan e Cristina Flutur). Questioni di lana caprina, in fin dei conti.
Lontanissimi dalla Palma d’oro e tornati a casa a mani vuote, invece, In the Fog di Sergei Loznitsa e Holy Motors di Leos Carax, pellicole accolte con un certo entusiasmo dalla stampa. Premi invece per Reality di Matteo Garrone e The Angels’ Share di Ken Loach. Loznitsa/Carax/Garrone/Loach: la conferma di un autore rigoroso, il ritorno di un visionario, il mezzo passo falso di una della poche stelle italiane, la stanchezza di un vecchio combattente. Tra qualche mese, tra qualche anno, sarà indubbiamente interessante capire cosa resterà di The Angels’ Share e cosa si dirà (adesso, proprio in queste ore, molti stanno saltando sul carro del vincitore…) del film di Garrone, ricco di suggestioni ma complessivamente sotto le attese. Invece, sperando che Carax non sparisca nuovamente, siamo abbastanza sicuri dei futuri successi di Loznitsa.
Capitolo Reygadas. Il regista messicano ha realizzato uno degli incipit più belli degli ultimi anni, una sequenza che resterà negli occhi e nel cuore. Ma di Post Tenebras Lux resterà anche lo sgomento di buona parte della stampa, il boato di fischi alla fine della prima proiezione, la silenziosa rassegnazione alla seconda. Il premio generosamente assegnato dalla giuria potrebbe rivelarsi un boomerang per lo stesso Reygadas e per queste coproduzioni internazionali dai contorni un po’ posticci: insomma, un po’ come coi tanti cloni del pseudo-indie statunitense. Ma finché vincono i premi…
Made in USA (e dintorni). La pattuglia anglofona è tornata a casa scornata. Alcuni buoni film non sono sembrati “da concorso”, come Lawless di John Hillcoat e Mud di Jeff Nichols, opere che avrebbero impreziosito l’Hors Compétition, magari facendo spazio ad alcuni titoli visti in Un Certain Regard. Totalmente fuori posto e sostanzialmente impresentabili, figli di logiche da red carpet e da riviste patinate, sono sembrati On the Road di Walter Salles e The Paperboy di Lee Daniels. Discorso a parte per Moonrise Kingdom di Wes Anderson, Cosmopolis di David Cronenberg e Killing Them Softly di Andrew Dominik, pellicole ambiziose che hanno trovato estimatori e detrattori. Sarebbe comunque ingeneroso parlare di bilancio negativo per il cinema nordamericano, visto che la selezione numericamente sovrabbondante è una scelta del festival, schiavo della sua stessa luccicante immagine. Il bello e il brutto della Croisette. Forse il subbuglio festivaliero italiano ha smosso un po’ le acque chete transalpine: come interpretare, altrimenti, la bizzarra e fallimentare proiezione a sorpresa fatta di trailer e sequenze di film in lavorazione e prossima uscita? Quale senso dare ai trailer di Brave e (gulp!) Chimpanzee o a qualche frammento ancora da montare di Only God Forgives di Nicolas Winding Refn?
Abbandoniamo il concorso e passiamo all’altra metà del cielo, l’animazione. Tra selezione ufficiale e Quinzaine si sono visti quattro lungometraggi animati. Del primo, Madagascar 3, blockbuster che non aveva bisogno di nessuna vetrina, è anche inutile parlare: computer grafica, 3D, qualche gag e via discorrendo. Deludente Le magasin des suicides, scritto e diretto da Patrice Leconte: una buona idea iniziale, parecchi debiti nei confronti della poetica burtoniana e un insopportabile eccesso di canzoni. Abbastanza interessante, dalla Quinzaine, il cupo e violento The King of Pigs del coreano Yeon Sang-ho. Ma il gioiello è Ernest et Célestine, diretto da Stéphane Aubie, Vincent Patar e Benjamin Renner, e scritto da Daniel Pennac. Meravigliosamente per bambini, impossibile pensarlo in concorso. Purtroppo.
Chiudiamo coi film, tanti, troppi. Ultima citazione per Beasts of the Southern Wild di Benh Zeitlin, vincitore della Camera d’Or, Antiviral di Brandon Cronenberg e Laurence Anyways di Xavier Dolan. Aspettiamo speranzosi i prossimi lavori. Il futuro è tutto per loro.
Cannes non è solo film e proiezioni. È anche mercato, lo sanno tutti. E incontri, interviste, conferenze stampa, film commission, plotoni di fotografi, parate di star, valanghe di persone che si riversano in strada per scattare foto, per vedere un volto noto, per immergersi nell’atmosfera glamour. Ecco, il glamour. Noi restiamo un passo indietro. Oppure, andiamo oltre, anche fisicamente: dal buio della sala (l’unica vera magia) alla fuga dal Palais, alla ricerca di un po’ di calma e di un piatto caldo. Tra qualche anno, probabilmente, di alcuni film visti in questa edizione 2012 non resterà molto. Ma alcune cose viste (e vissute) fuori dal Palais non le dimenticheremo. Ad ognuno la sua Cannes.