Welcome Venice

Welcome Venice

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Racconto di una Venezia pandemica preoccupata di riacciuffare il prima possibile i propri turisti scomparsi dai radar, Welcome Venice di Andrea Segre è un dramma familiare che sfiora la tragedia per esaltare poi il coraggio di vivere. Dominato da un’ammirevole fluidità veristica di regia e recitazione, è anche un’acuta riflessione sull’arroganza del progresso nei confronti della tradizione. In sala.

Una volta qui era tutta laguna

Venezia, alla Giudecca, oggi. I fratelli Piero e Toni si dedicano alla pesca delle moeche, granchi commestibili che si trovano in laguna. Toni è serio e affidabile, e Piero, uscito di carcere e forse emotivamente instabile, stravede per lui. C’è anche un terzo fratello, Alvise, che ha deciso di intraprendere tutt’altra strada. Gestisce infatti alcuni appartamenti in affitto per turisti, e con la figlia Lucia lavora intorno a nuove idee per far rifiorire la loro attività dopo la pandemia Covid. Toni muore accidentalmente durante un’uscita a pesca, e Alvise pensa di appropriarsi di una vecchia casa di famiglia per inserirla nel suo giro d’affari. Lì però ci è rimasto Piero a vivere, e malgrado il miraggio offertogli da Alvise di ricchi e rapidi guadagni non ha alcuna intenzione di traslocare e liberare la casa… [sinossi]

Tradizione e progresso. In uno dei contesti italiani ormai storicamente più commercializzati a uso e consumo dei turisti stranieri e non – la bellezza vetusta e decadente della città di Venezia, Andrea Segre colloca una riflessione sul conflitto tra due idee di esistenza, di lavoro, di profitto e di benessere. Da un lato, la Venezia antica, identificata nel quartiere Giudecca, ancora dedita alla pesca in laguna: dall’altro, la Venezia che pensa solo ai “sghei”, a spennare fino nel midollo orde di turisti ammaliati da un Made in Italy sempre più proiettato a meticciarsi con l’hi-tech digitale. In mezzo, la pandemia. Al momento Welcome Venice, presentato nell’ambito delle Giornate degli Autori all’ultima Mostra, è uno dei pochi film italiani che tenta di riflettere sul qui-ed-ora (o al massimo l’altroieri) dell’epoca Covid che ha stravolto le nostre abitudini quotidiane e, anche e soprattutto, aspettative e modelli economici. Sale alla ribalta una Venezia invernale, grigia e deserta, dove sono rimasti (almeno all’altezza temporale delle riprese del film) solo gli attuali sparuti residenti a solcare calli, campielli e ponti. In fin dei conti sarebbe più bella così, dicono alcuni personaggi. È uno dei leit-motiv che si sono rincorsi nei mesi passati un po’ in tutte le città italiane. Cittadini che improvvisamente, e in una modalità del tutto imprevedibile, si sono ritrovati a riaccaparrarsi il proprio spazio urbano con la totale sparizione dei consueti fiumi di visitatori. È una Venezia tutta narrata con approccio veristico, ma inquadrata nel suo stato transitorio di surreale e fantasmatico suolo lunare.

In tale inedito contesto socio-antropologico, che ovviamente suscita nuovi inquieti interrogativi sul futuro della propria sicurezza economica (a Venezia come in tutta Italia), si svolge un dramma familiare sulle prime di impronta fortemente corale, e che poi stringe primariamente sul conflitto tra due fratelli attempati. Inizialmente Segre sembra dare l’avvio a un racconto percorso da venature tragiche: una morte forse misteriosa, un ancestrale scontro tra fratelli, e soprattutto un’immagine collettiva di famiglia molto simile al clan, dove gli interessi economici sono di uno e di tutti (su un ambiguo crinale tra generosità ed egoismo) e dove di fronte alle difficoltà il nucleo si chiude, roccioso e determinato, a difendersi dal mondo – salvo poi, ovviamente, lasciare il dominio in mano al più scaltro dei componenti, Alvise, il fratello che sa rischiare e che per la stessa ragione sa anche imporre agevolmente il proprio volere a tutti i consanguinei. In questo blocco pressoché marmoreo di affetti/interessi, c’è però l’elemento disturbante, la pecora nera, ricoperta comunque di affetto da parte di tutti, tributata del diritto alla redenzione, basta che però non dia troppo fastidio: Piero, forse non del tutto in testa, ex-carcerato, cinefilo e particolarmente fissato con il Massimo Decimo Meridio di Russell Crowe in Il gladiatore (Ridley Scott, 2000), che vive da solo, balla da solo, ride e piange un po’ da solo. È vedovo (la compagna si è ammalata mentre lui si trovava in carcere), ha una figlia che non gli parla più e un nipote a cui è molto affezionato. Stravede per suo fratello Toni, con il quale condivide la passione e l’attività per la pesca delle moeche, granchi commestibili senza guscio, antica pratica giudecchina. Abituato a non dare mai espressione alla propria volontà, Piero riscopre però un codice etico (e forse pure un desiderio di riscatto personale) quando il maneggione fratello Alvise vuol sottrargli la casa paterna per affittarla ai turisti e vuole costringerlo sostanzialmente a cambiare vita, pesca compresa. Immagine di una vecchia Venezia residuale che non vuol cedere al progresso, difensore inconsapevole di una città che ha il diritto ad avere una propria popolazione, un proprio spazio d’espressione e una propria vita produttiva e commerciale che non sia esclusivamente turismo, Piero è una commovente figura fuori tempo massimo, talmente determinato da riuscire quasi ad averla vinta, non fosse che lui stesso, sul finale, cambia idea, superando le paure e riscoprendo la generosità anche verso chi non ne è particolarmente meritevole.

Per un racconto così corposo, che indaga con passo discreto dinamiche psico-familiari, modelli socio-comportamentali e mutamenti storici, Segre sceglie un sommesso approccio veristico. Si percepisce in piena evidenza un lavoro enorme del regista con i propri attori. Alcune sequenze, specie all’esordio, conservano un ammirevole aspetto di realtà colta nel suo farsi, seguendo dialoghi in overlapping dove è mantenuto pressoché totalmente il dialetto – se la cava discretamente pure la romana Ottavia Piccolo, convocata per un prezioso ruolo secondario. Nelle sezioni dedicate all’attività di pesca Segre riconferma altrettanto una spiccata sensibilità per il paesaggio e il desiderio di vivere dal di dentro le situazioni ricostruite, di “starci”, seguendo azioni e dialoghi rimessi in scena nella loro apparente casualità. Sarebbe interessante indagare i metodi di lavoro e realizzazione di Segre con i propri attori, chiarendo magari il livello più o meno preordinato della sceneggiatura – a volte, durante la visione, viene infatti da chiedersi se i dialoghi siano in parte improvvisati sul tema, o se l’autore abbia lavorato così intensamente con gli attori da far assorbire loro, fino alla totale naturalezza, dialoghi robustamente e tradizionalmente preordinati su carta.

Il passo indagatore di Segre si divide equamente nella radiografia di due realtà contigue e diverse: la borghesia riccastra della famiglia di Alvise, in cui si incrociano scaltrezza modernista in ambito lavorativo e ataviche tradizioni familiste (la commozione di Alvise alla notizia della gravidanza della figlia, la pasta fatta in casa dalle due donne, il gioiello opulento regalato alla figlia per la bella notizia…), e il mondo ritirato e appartato di Piero, soggetto strano, scheggia impazzita in un sistema oliato che però incarna anche il rispetto di una Venezia praticamente scomparsa. Grazie al registro veristico adottato Segre riesce a dare evidenza alla sottile mostruosità della famiglia di Alvise senza tuttavia ricorrere ad alcuna deformazione vistosa in senso grottesco. Ne è prova il personaggio stesso di Alvise, così intimamente impastato a una selva di retoriche diverse (si pensi, uno fra tanti esempi, al racconto della lezione di nuoto da bambino rievocata in occasione della veglia funebre di Toni) da risultare spesso ai limiti dell’insostenibile. Eppure, il personaggio di Alvise (strepitosa la prova attoriale di Andrea Pennacchi, il televisivo Poiana di «Propaganda Live») non è mai affidato alla caratterizzazione, all’ingigantimento incredibile e ridanciano. Grazie a tali scelte stilistiche il quotidianamente mostruoso Alvise è capace dunque di mantenersi anche umano e di raccogliere qua e là pure l’empatia dello spettatore – si pensi alla sincerità dei suoi toni quando rievoca il fascino subito fin da bambino nei confronti dell’innovazione tecnologica. È lecito insomma anche il desiderio di Alvise di percorrere nella vita strade diverse rispetto al destino segnato da suo padre, incrollabile pescatore che ha sempre desiderato lo stesso tipo di vita anche per i suoi figli. Piero e Alvise, due strade entrambe lecite: il problema, semmai, sta nel fatto che la strada imboccata da Alvise contiene intrinsecamente, per sua ineluttabile natura, l’arroganza, la prepotenza e l’eliminazione di altri modelli dall’orizzonte. D’altra parte, per la piccola mentalità sostanzialmente provinciale di un veneziano così come di un italiano in senso lato, il fascino brillante di nuovi modelli economici è una sirena fortissima ed è anche una condanna allo schiavismo. Il futuro e danaroso genero Giorgio parla un linguaggio praticamente incomprensibile per Alvise, che subisce tutto il fascino del modernismo economico restandone a sua volta sfruttato e schiacciato. In tal senso Welcome Venice allude per buona parte della sua durata a un esito tragico, inaspettatamente disatteso nel finale. È uno scioglimento che stordisce e che lascia davvero sorpresi. La svolta generosa di Piero è probabilmente anche un’adesione al rischio, come ha fatto Alvise per una vita intera ma senza la sua protervia – l’amica Silvana, non a caso, esorta Piero a un certo punto a non aver paura di cambiare vita. Salvare una vita, stavolta, può significare salvare la propria e la serenità dei propri affetti riscoperti – in quel lungo sguardo silenzioso di Piero sulla barca sembra di veder passare davanti ai suoi occhi figlia e nipote, e il ricordo di Toni.

Welcome Venice si congeda dunque con una virata di tono coronata da un finale davvero sagace, intelligente e divertente. Un salto nel simbolico e nell’allegorico che prende forma tramite una magistrale messinscena. Tuttavia, lo scarto di tono rispetto al resto della narrazione è enorme ed evidente, tanto da suscitare pure qualche perplessità. L’insieme si conferma comunque forte e ben strutturato, sorretto da un ottimo parco d’attori. Se Pennacchi evoca piccole grandi mostruosità quotidiane, Paolo Pierobon, nei panni di Piero, ha a che fare con un personaggio scopertamente più intenso, dalla sensibilità sconquassata e torturata. Un diverso, percepito, come spesso accade con tutti i diversi, come minaccioso e indomabile.

Info
Welcome Venice, il trailer.

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