Parthenope

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Dopo la parentesi veneziana Paolo Sorrentino torna sulla Croisette con Parthenope, presentato in concorso al Festival di Cannes 2024. Attraverso la sua protagonista, che dà il titolo al film, il regista napoletano innalza un’elegia alla sua città, senza però rinunciare all’accumulo di materiali che ne contraddistingue oramai da anni l’estetica.

A tien’ a coccos a dicere o no?

La vita di Parthenope dalla sua nascita negli anni Cinquanta ai giorni nostri. Un’epopea femminile priva di eroismo ma innamorata della libertà, di Napoli e dell’amore. Gli amori veri, indicibili o di breve durata, che ti condannano al dolore ma ti fanno ricominciare. L’estate perfetta a Capri per una giovinezza spensierata nonostante un orizzonte senza speranza. Intorno a Parthenope, i napoletani. Scrutati, amati, disillusi e pieni di vita, che seguiamo nelle loro derive malinconiche, nelle loro tragiche ironie e nei loro momenti di sconforto. La vita può essere molto lunga, memorabile o ordinaria. Lo scorrere del tempo offre l’intero repertorio dei sentimenti. E lì, sullo sfondo, vicina e lontana, questa città indefinibile, Napoli, che ammalia, incanta, urla, ride e può farci male. [sinossi]

“Ai personaggi femminili non so cosa fargli dire”, si lamentava Michele Apicella/Nanni Moretti in Sogni d’oro, il film con cui il regista romano cercava di affrontare la crisi d’ispirazione dopo l’inatteso successo dell’esordio Io sono un autarchico e dell’opera seconda Ecce Bombo. Non ha mai attraversato una simile crisi, Paolo Sorrentino, o almeno non l’ha mai dichiarato apertamente (forse ai tempi de L’amico di famiglia, ma lì si trattava per lo più di problemi con il montaggio definitivo), in un percorso autoriale personale che pare lo stia portando in maniera sempre più evidente ad accantonare qualsiasi lacerto di “narrazione” preferendogli la “suggestione”. Persino È stata la mano di Dio, dal valore così autobiografico, ribadiva la volontà di Sorrentino di far perdere la propria camera alla deriva di personaggi, situazioni, luoghi, memorie vivide e oniriche. E proprio all’incipit del film precedente – che il regista aveva presentato alla Mostra di Venezia, evitando l’anteprima sulla Croisette per la prima volta dai tempi de Le conseguenze dell’amore, con l’unica eccezione dettata dal dittico Loro, almeno per quel che concerne i progetti cinematografici – ritorna Parthenope: se nel 2021 il film principiava con l’arrivo a Napoli dal golfo tramite una ripresa aerea, in Parthenope lo stesso percorso lo si fa al livello dell’acqua, con una enorme carrozza settecentesca trasportata per festeggiare la prossima nascita della protagonista, che dà il titolo al film. Una carrozza d’oro due anni prima che il viceré del Perù la doni alla Colombina/Camilla nel capolavoro di Renoir, visto che Sorrentino pone come data d’inizio della vita della sua eroina il 1950, e che viene installata nella stanza della nascitura per fungere da letto. Si parte dunque anche da Achille Lauro, richiamato evidentemente nel personaggio dell’armatore che reca con sé il suddetto dono, è che il datore di lavoro del padre di Parthenope e di suo fratello maggiore Raimondo, che ama soffiare del vento per cacciar fuori dal corpo la sua fragilità (lo farà anche quando avrà finalmente conquistato la ragazza che brama, e che vorrebbe fare l’amore con lui: meglio soffiare aria).

Sorrentino si muove attorno alla vita della giovane e splendida ragazza interpretata da Celeste Dalla Porta – peccato che la giovane si limiti a un paio di espressioni, lo sguardo corrucciato e il grande sorriso spesso da regalare guardando in macchina – come stesse danzando, alla ricerca di corpi che però poi preferisce non mettere in scena nella loro carnalità ma lasciare eterei, puri, intoccabili. C’è questa discrasia nel cinema di Sorrentino, vale a dire l’inseguimento di un desiderio che poi si vuole continuamente castrare, che trova stavolta una sublimazione fin troppo reiterata. Nel resto del viaggio il regista partenopeo sciorina il repertorio oramai abituale di temi e suggestioni: la giovinezza come momento di falsa felicità che resta impresso come passaggio traumatico impossibilitato a un vero superamento (anche qui, come accadeva a Jep Gambardella ne La grande bellezza, la Parthenope anziana torna con la memoria a ciò che accadde quando era poco più che adolescente; in una certa misura è come se questo film fosse un braccio estendibile di quello del 2013), la donna come oggetto misterioso che resta inconoscibile, l’intellettuale che si lascia andare alla deriva – qui un Gary Oldman che abbozza un John Cheever in esilio a Capri. Il tutto com’è ovvio affidato al solito corollario di volti, situazioni/evento, che ancora una volta sembrano voler inseguire il cinema di Federico Fellini (c’è chi ha giustamente suggerito che se La grande bellezza poteva essere considerato il suo La dolce vita, e È stata la mano di Dio il suo Amarcord, Parthenope è la sua personale versione di Roma, con Napoli al posto della Capitale) finendo per perdersi nei vicoli di una città di cui il cineasta sembra più ostaggio che osservatore. Questa dispersione è data dal fatto che la sua protagonista resta un enigma in primis proprio per Sorrentino, che proprio come accadeva a Michele Apicella non sa mai cosa farle dire, al punto che alla domanda “cosa stai pensando?”, che gli rivolgono molti personaggi nel corso del film lei si limita a fare scena muta, al massimo sorridendo come risposta.

Priva di spessore e complessità, Parthenope è un soggetto in movimento che diventa ovvio oggetto dello sguardo, come se anche Sorrentino a parte la sua bellezza non sapesse trovare un senso in più. E se, come anche dichiarato, la giovane rappresenta in sé tutte le contraddizioni di Napoli, il regista non approfondisce mai tali contraddizioni – la sequenza nei bassi, con tanto di matrimonio tra due famiglie camorriste rivali, è a tal senso emblematica – prediligendo l’ancorarsi ai corpi, e alla loro superficialità. Non sapendo mai rinunciare alla battuta a effetto, che mette in bocca praticamente a ogni personaggio, Sorrentino non si prende mai sul serio, ma così facendo non prende sul serio nemmanco la sua protagonista, e ancor meno il suo dolore, quello di aver perso il fratello morto suicida a Capri mentre lei per la prima volta faceva l’amore con l’innamorato di sempre – che come lei, e come la gloria del cinema Greta Cool (evidente il riferimento a Sophia Loren nata Scicolone, così come palese è il rapporto d’immagine tra il cardinale interpretato da Peppe Lanzetta e Crescenzio Sepe) se ne andrà a vivere al nord abbandonando Napoli. Il sesso è qualcosa di sgradevole, e per lo più evitabile, nel cinema di Sorrentino, che di nuovo ama i corpi ma non i loro umori. Ama le statue, come quel volto marmoreo mezzo sbreccato su cui si sofferma in più occasioni nella prima parte del film. Tutto resta sempre in superficie, quasi che a scendere in profondità si corresse il rischio di lordarsi, e al massimo si pone in ridicolo ciò che si dovrebbe analizzare, a partire dal miracolo che dovrebbe rappresentare il centro della seconda metà del film, quando Parthenope tenta – riuscendo – una carriera accademica che non brilla in credibilità. Paolo Sorrentino pare non trovare risposta all’interrogativo che al suo alter ego faceva Antonio Capuano in È stata la mano di Dio: “A tien’ a coccos a dicere o no?”, e si trasforma a sua volta in Parthenope, preferendo il fascino alla sostanza, sempre alla ricerca della risposta a effetto che stordisca l’interlocutore lasciandolo a bocca aperta. In questo modo anche la melanconia che dovrebbe essere il centro nevralgico di Parthenope si annacqua, diventando al massimo uno sguardo corrucciato che sa ancora aprirsi a un grande sorriso.

Info
Parthenope sul sito del Festival di Cannes.

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