A Complete Unknown

A Complete Unknown

di

Un ventennio dopo aver raccontato Johnny Cash in Walk the Line, James Mangold porta in scena con A Complete Unknown l’altro grande rivoluzionario della tradizione musicale statunitense. Il genio di Bob Dylan viene immortalato nella sua giovinezza, dall’arrivo da spiantato a New York fino al terremoto che produsse l’esibizione elettrificata al Festival di Newport del luglio 1965; un’opera stratificata, di grande spessore intellettuale, che ragiona sull’impossibilità di contenere il talento, sull’illusione di un’America in reale sommovimento, e sull’inconoscibilità dell’intima identità dell’umano.

Hard Times in New York Town

New York, gennaio 1961. Un ventenne armato solo della sua chitarra acustica raggiunge la Grande Mela in autostop con l’unico intento di fare visita in ospedale alla leggenda del folk Woody Guthrie, ricoverato nel New Jersey a causa della malattia di Huntington che lo condurrà poi alla morte appena cinquantacinquenne. Al capezzale di Guthrie fa la conoscenza del cantautore Pete Seeger, che ne intuisce le straordinarie qualità e decide di ospitarlo a casa sua… [sinossi]

In Hard Times in New York Town, una delle sue prime composizioni rimasta nel cassetto delle registrazioni fino alla pubblicazione trentaquattro anni fa del fondamentale The Bootleg Series Volumes 1-3 (Rare & Unreleased) 1961-1991, Bob Dylan nato Robert Allen Zimmerman canta «Come you ladies and you gentlemen, a-listen to my song. Sing it to you right, but you might think it’s wrong». “Ve la canterò giusta ma potrebbe forse sembrarvi sbagliata”: c’è in questo passaggio sornione una parte del mistero insondabile di Dylan, con ogni probabilità il più grande intellettuale statunitense del Novecento – con buona pace dei detrattori e di chi si indignò perché un “cantante rock” aveva ottenuto il Premio Nobel per la Letteratura, osando anche compiere il gesto sgarbato di non presentarsi alla cerimonia di consegna –, l’unico in grado di incarnare l’anima più profonda e radicale della nazione e allo stesso tempo illuderla di potersi spingersi innanzi. Non è certo casuale che tre dei principali lavori dedicati nell’ultimo ventennio al genio di Duluth (lì nacque, sulle sponde occidentali del Lago Superiore, per crescere però poi un centinaio di chilometri più a nord, a Hibbing) contengano nel titolo un principio di indeterminatezza: il documentario No Direction Home di Martin Scorsese, I’m Not There di Todd Haynes, e ora questo A Complete Unknown con cui James Mangold torna a occuparsi della musica tradizionale statunitense a vent’anni di distanza da Walk the Line, nel quale prendeva di petto la vita avventurosa di Johnny Cash. Certo, in tutti e tre i casi si faceva riferimento diretto alle liriche di Dylan (No Direction Home e A Complete Unknown fanno parte del testo di Like a Rolling Stone, mentre I’m Not There è una canzone che fa parte delle infinite registrazioni con The Band e la si può rintracciare nel monumentale The Basement Tapes Complete edito nel novembre 2014), ma questo non fa che acuire il senso di perdizione che si prova allorquando si cerca di costruire un recinto attorno all’autore, come se fosse possibile etichettarlo o confinarlo in uno spazio magari ampio, ma in ogni caso controllabile. “Two hundred people in that room and each one wants me to be somebody else”, afferma un inquieto Dylan nel corso del film, suggerendo quella che è una delle chiavi di lettura più evidenti del lavoro di Mangold, vale a dire il rapporto tra un unicum geniale, irrequieto perché inadatto a essere conformato – come Cash, diversamente da Cash –, e una massa adorante alla ricerca di un profeta in grado di condurla fuori dalle pastoie del tempo, e del contemporaneo.

Quando New York spegne tutte le sue luci in vista di quello che pare l’imminente scoppio di una guerra atomica tra gli USA e l’Unione Sovietica – le due settimane della crisi dei missili a Cuba nell’ottobre 1962 –, Dylan accompagna le paure di un popolo pronto alla morte cantando Masters of War per poi lasciare repentinamente il palco: la massa ha il suo portavoce, nell’utopia di un’estensione elegiaca a un sentimento collettivo. Un’utopia che Dylan non solletica, non certifica, ma che è inevitabile fin dalla sua scarna esibizione di fronte a Seeger e Guthrie al New Jersey Hospital che il ventenne folksinger ha potuto raggiungere solo perché il taxi ha accettato una cifra inferiore al dovuto: lì, nel bel mezzo di una stanza d’ospedale, di fronte a un mito allettato e in pre-mortem e al suo più fido scherano, Dylan canta Song to Woody, che rielabora nella melodia 1913 Massacre dello stesso Guthrie per trovare traiettorie inusuali nel testo (“Here’s to Cisco an’ Sonny an’ Leadbelly too, an’ to all the good people that traveled with you. Here’s to the hearts and the hands of the men, that come with the dust and are gone with the wind”). Nel portare riverenza alla propria radice culturale il giovane Dylan si sta già ergendo come ponte intergenerazionale, creando una connessione tra chi rivendicava la rivolta degli ultimi attraversando il Paese e chi, nel cuore di una New York già lanciata a folle velocità nel futuro, potrebbe fungere da collante tra i vari movimenti di protesta che si stanno facendo largo. In questa accezione è interessante notare come Mangold, che scrive A Complete Unknown insieme a Jay Cocks (tra gli altri, impossibile non citare i suoi contributi alle sceneggiature degli scorsesiani Mean Streets, L’ultima tentazione di Cristo, e soprattutto L’età dell’innocenza) partendo dal volume Dylan Goes Electric! di Elijah Wald, contribuisca a suggerire da principio una visione fideistica del novello bardo/menestrello, con Seeger alla stregua di Pietro Simone e l’accolita di cantautori che si muovono nell’ombra di una New York illuminata solo per Dylan – non casuale l’apparizione iniziale di quel Dave Van Ronk cui i fratelli Coen tributarono un omaggio non ufficiale in Inside Llewyn Davis – che appaiono come tanti apostoli pronti a (in)seguire il “verbo”. Così la trascinante esibizione del 1964 a Newport di The Times They Are A-Changing si tramuta in una sorta di “discorso della montagna”, traccia indelebile di trasmissione di pensiero a un mondo in subbuglio, e in attesa spasmodica di un megafono, quel ruolo che Guthrie non può più incarnare per sopraggiunte difficoltà fisiche – il dio fattosi muto – e che Seeger non è in grado di reggere, se non in una funzione ludica (la splendida sequenza in cui Dylan lo osserva esibirsi coinvolgendo la platea nel canticchiare The Lion Sleeps Tonight). Accogliendo questa chiave di lettura del film viene meno l’ipotesi di un triangolo amoroso che vedrebbe Dylan conteso tra la pittrice e attivista Sylvie Russo – rilettura di Suze Rotolo, unico personaggio che ha visto mutare il nome rispetto alla realtà – e la collega Joan Baez, che vediamo per la prima volta esibirsi nella sua versione del classico House of the Rising Sun. Quest’ultima non è un reale interesse affettivo per Dylan (la loro relazione in effetti durò molto poco), ma svolge semmai la funzione di ideale Maria Maddalena.

Del tutto rilevante invece la messa in scena di Sylvie/Suze proprio perché spezza in maniera chiara e diretta la funzione oracolare di Dylan riconducendola in una realtà in cui il genio rimbaudiano per eccellenza – per la sua giovane età, per la sua chiaroveggenza, e per la dissociazione intima insita nel celeberrimo “Je est un autre” presente in Lettre du Voyant – deve scontrarsi con la mediocrità del mondo in cui vive, le sue iniquità. Anche Sylvie, come un po’ tutti, si illude di poter cogliere nel profondo l’intimo esistere di Bob, per poi rendersi conto di una natura inafferrabile, oltremondana, che è errabonda per definizione, senza destinazione per casa: Dylan arriva dal nulla sul retro di un’automobile e verso il nulla si dirige a bordo della sua moto Triumph, quella con cui si schianterà nel luglio 1966 (incidente “fuori” dal recinto narrativo di A Complete Unknown, ma che viene suggerito da Pete Seeger quando chiede al giovane amico di “fare attenzione” nel guidare quel bolide) fratturandosi delle vertebre. Nessuno può conoscere davvero Dylan, neanche il pubblico del film che qualora non fosse dylaniano potrebbe addirittura scoprire il vero patronimico del cantante solo quando arriva per posta un album di famiglia all’appartamento che l’uomo divide con Sylvie. Nel rapporto impossibile con Sylvie si articola il discorso di Mangold sulla disillusione, che prende corpo nella ragazza per elevarsi a pianto rituale non solo di una generazione, ma di un intero modo di intendere le cose del mondo. Se Seeger non può che accettare la svolta elettrica, quella che dal palco di Newport vede irradiare le note di Like a Rolling Stone a livello planetario suggerendo una nuova direzione – no direction home – al “popolo”, allo stesso modo non si può che accettare che il genio non sia portavoce, ma semmai stendardo ideale di una lotta; l’illusione di Sylvie è la stessa del modo in cui in occidente si sono voluti vedere gli Stati Uniti che dalla Seconda guerra mondiale arrivano fino al Watergate, passando per il Vietnam. In tal senso A Complete Unknown non guarda in direzione del biopic classico – come invece faceva strutturalmente Walk the Line – ma osserva la nazione con l’impietoso e struggente de profundis che intonò Robert Altman all’epoca di Nashville. Se non vi è qui la medesima possanza è perché Mangold e Cocks non sanno rinunciare soprattutto nella seconda metà al racconto puro, là dove invece la struttura dettata dalle esibizioni musicali garantiva al primo blocco del film di attestarsi ad altezze vertiginose, in particolar modo se messe in relazione alla mediocrità produttiva della Hollywood odierna.

Settantatré brani attraversano A Complete Unknown, con quelli di Dylan registrati integralmente da Timothée Chalamet, quelli di Baez appannaggio di Monica Barbaro e gli interventi musicali di Seeger interpretati e suonati da Edward Norton (a testimonianza dell’eccellente lavoro svolto in fase di casting, con l’intero cast in forma smagliante, e meritevole di elogi che vadano ben oltre l’attribuzione o meno di un premio Oscar); settantatré brani che vogliono essere l’antologia di un’America perduta, quella dell’anarchismo, e di un marxismo strisciante e sempre tenuto sotto le coltri di polvere (e il film si apre sulle struggenti note di Dusty Old Dust di Woody Guthrie: praticamente una dichiarazione programmatica). Si parte da Guthrie e si arriva a Dylan-cantato-da-Dylan solo sui titoli di coda, quando può irrompere l’organo Hammond di Al Kooper e portare via definitivamente la polvere del tempo. Settantatré brani che vedono anche la presenza nella colonna sonora di figure liminari quali Moondog, Brownie McGhee, Hank Williams, Yusef Lateef, testimoni di un tempo come lo furono JFK o lo sbarco nella Baia dei porci. Testimoni di un tempo che, pare affermare Mangold, si è cristallizzato per renderlo intoccabile ma non fu altro che un’utopia collettiva, ben presto evaporata nella caligine mattutina, come il risveglio del rivoluzionario Dylan dopo la sfida alle convenzioni sul palco di Newport. Se nel finale del film si vuole vedere un ideale passaggio di consegne tra Guthrie e Dylan è di nuovo per sopraggiunto romanticismo: in realtà si tratta del rispecchiamento di un ideale statunitense fondativo, quello dell’uomo solo, del giusto, che salta in sella – in questo caso di una motocicletta – per andare incontro a un orizzonte che non prevede redenzione, ma solo nuove interminabili sfide. Singole, mai collettive. Il cantante col popolo, Guthrie, è oramai privo di voce e articolazioni, ma riconosce (lui solo) la natura di Dylan, la sua grandezza reale, la sua necessità d’espressione. Se Cash, un altro che Dylan lo comprende, ma forse solo in parte, mima sul palco il gesto della fucilata attraverso la sua chitarra, Guthrie sa che quello strumento/macchina può kills the fascists, ma sa anche che si tratta comunque di un’azione di un singolo, e non della massa. Quella, ritenendosi rivoluzionaria, non si rende conto di essere conservatrice, e dunque impossibilitata a un vero mutamento. L’eroe, che per tradizione è sempre giovane e bello, se ne va al mattino, da solo su una strada silente. A Complete Unknown è una lettura del genio e dell’America, un’opera di una tristezza così pura da essere insondabile.

Info
Il trailer di A Complete Unknown.

  • a-complete-unknown-2024-james-mangold-01.webp
  • a-complete-unknown-2024-james-mangold-02.webp
  • a-complete-unknown-2024-james-mangold-03.webp
  • a-complete-unknown-2024-james-mangold-04.webp
  • a-complete-unknown-2024-james-mangold-05.webp
  • a-complete-unknown-2024-james-mangold-06.webp
  • a-complete-unknown-2024-james-mangold-07.webp
  • a-complete-unknown-2024-james-mangold-08.webp

Articoli correlati

  • Cannes 2023

    indiana jones e il quadrante del destino recensioneIndiana Jones e il quadrante del destino

    di A quindici anni di distanza da Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo, all'epoca ciecamente bistrattato, torna alla carica – e a Cannes, sempre fuori concorso – il più famoso archeologo della storia del cinema in Indiana Jones e il quadrante del destino. Indy è ancora in gran forma.
  • In sala

    Le Mans '66 RecensioneLe Mans ’66 – La grande sfida

    di Cinema classico, principalmente di scrittura e interpreti, Le Mans '66 - La grande sfida schiva abbastanza bene le trappole del manicheismo, narrando un'amicizia che si sublima nelle potenti sequenze d'azione, ben messe in scena da un James Mangold decisamente in forma.
  • AltreVisioni

    rolling thunder revue recensioneRolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story

    di Rolling Thunder Revue è, lo dice il sottotitolo stesso, “una storia di Bob Dylan” vista con gli occhi di Martin Scorsese. Ma cos'è una storia, se non il falso che ha bisogno del vero per potersi ergere a simbolo?
  • Archivio

    Logan – The Wolverine

    di Mangold costruisce una realtà parallela, futuribile, assai distante dai colori sgargianti e dalle spacconate del Marvel Cinematic Universe. Polvere, sangue, carne e sofferenza: l'ultima avventura di Logan è una ballata dolente.
  • Archivio

    Wolverine L'immortale RecensioneWolverine – L’immortale

    di Seguito di X-Men - Le origini: Wolverine, questo secondo capitolo è una poco emozionante lotta per la sopravvivenza di un pesce fuor d’acqua in una terra ostile, combattuta a colpi di artigli, spade e arti marziali.
  • Archivio

    Innocenti bugie RecensioneInnocenti bugie

    di Nella leggerezza più totale, e nell'amor fou della situazione, O'Neal e Mangold riescono a divertire e a divertirsi, usando la follia della trama per cambiare di continuo le location: dalle metropoli americane alle nevi austriache, fino alle isole incontaminate...
  • Archivio

    No Direction Home: Bob Dylan

    di Con No Direction Home: Bob Dylan, Martin Scorsese prosegue la sua mappatura enciclopedica dell’immaginario statunitense, cimentandosi con la metamorfica personalità di un'icona senza tempo, né direzione certa.
  • Archivio

    Quando l’amore brucia l’anima

    di Biopic schematico e dedito a motivazioni freudiane, Quando l'amore brucia l'anima poggia tutto sui suoi interpreti, ma non riesce a ritrarre lo spirito indomito di Johnny Cash.