Momenti di trascurabile felicità

Momenti di trascurabile felicità

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Momenti di trascurabile cinema. La battuta è facile, ma purtroppo inevitabile di fronte al nuovo film di Daniele Luchetti, Momenti di trascurabile felicità, che – prendendo spunto da due volumetti di Francesco Piccolo – assomma tutte le caratteristiche più nefaste del cinema italiano pseudo-autoriale contemporaneo.

Voglio un cinemaaaaa

Lo yoga e l’Autan non sono in contraddizione? La luce del frigorifero si spegne veramente quando lo chiudiamo? Perché il primo taxi della fila non è mai davvero il primo? Perché il martello frangi vetro è chiuso spesso dentro una bacheca di vetro? E la frase: ti penso sempre, ma non tutti i giorni, che sembra bella, è davvero bella? A queste, e ad altre questioni, cerca di dare una risposta Paolo, cui rimangono solo 1 ora e 32 minuti per fare i conti con i punti salienti della sua vita. [sinossi]

Basta leggere la sinossi di cui sopra per intuire che il nuovo film di Daniele Luchetti, Momenti di trascurabile felicità, si trova a fare i conti con non pochi problemi narrativi. Ispirato a due volumetti di Francesco Piccolo, Momenti di trascurabile felicità e Momenti di trascurabile infelicità, caratterizzati dal fatto di non avere un racconto unitario quanto da quello di essere delle riflessioni – diciamo così – di natura filosofica sul quotidiano (come per l’appunto la domanda: la luce del frigorifero si spegne veramente quando lo chiudiamo? La cui prima risposta, ovvia, potrebbe essere: certo che sì; mentre la seconda, più meditata, potrebbe spingerci a dire: ma chi se ne frega!), il film del regista de Il portaborse, per cercare di avere un minimo di struttura, si appoggia in maniera derivativa a non pochi classici del cinema, da Il cielo può attendere di Lubitsch a La vita è meravigliosa di Frank Capra, passando per Ritorno al futuro di Zemeckis e fino ad arrivare ad Asso di Castellano e Pipolo, con protagonista Adriano Celentano. Già, perché il nostro protagonista – Pif – muore nei primi minuti e si trova a barattare la possibilità di passare almeno un’altra ora e mezza sulla Terra, in modo da dire addio in maniera congrua a moglie e figli, ma sperando allo stesso tempo di guadagnarsi la possibilità di ritornare a essere vivo alla fine del film riscoprendo la bontà del vivere, gli affetti dei suoi cari e, insomma, in fin dei conti, ritrovandosi ad abbracciare il tanto agognato familismo tipicamente italico.

Quel che ne esce in Momenti di trascurabile felicità è però sostanzialmente un frankenstein: da un lato abbiamo il racconto fantastico-derivativo che prende più o meno a modello i film sopra-citati, dall’altro abbiamo una sequela di riflessioni oziose – come quella del frigorifero, ma se ne potrebbero aggiungere mille altre, si veda il suggerimento dato alle donne di comprare caterve di assorbenti per non aver bisogno di acquistarli all’ultimo momento, proposta che ha un che di maschilista, perché in fin dei conti è un ragionamento che si potrebbe fare per qualsiasi cosa, come ad esempio la carta igienica o gli scottex, o lo zucchero, o il caffè -, riflessioni che finiscono per ingolfare ben presto la narrazione, deviandola verso una pseudo-filosofia autoriale e onanistica che ci allontana sempre di più dal cosiddetto racconto.

Inutile parlare dunque di drammaturgia o di conflitti tra personaggi, visto che sin dall’inizio di Momenti di trascurabile felicità è già ben chiaro dove si andrà a parare e visto che il percorso di redenzione del protagonista non è mai davvero messo in scena o in discussione, quanto piuttosto dato per scontato, dato che la maggior parte del tempo è occupata dalle sue riflessioni auto-referenziali, forse adatte per un libello di pensieri sparsi, ma inadatte decisamente a farsi cinema.
Ne consegue che, ancora una volta, e per l’ennesima volta, il nostro cinema si mostra indifferente rispetto alla necessità di raccontare una storia, che è l’unica vera e indispensabile qualità per provare a costruire un cinema commerciale e che possa piacere al pubblico, e – nel contempo – mostra un pressoché sovrano e cieco disinteresse a caratterizzare dei personaggi che parlino con la loro bocca e non con quella dell’autore fuori-scena, in questo caso un mix tra lo stesso Piccolo (anche sceneggiatore) e Daniele Luchetti. E forse ormai è troppo tardi domandarsi per quale motivo i nostri registi e i nostri sceneggiatori – e i nostri produttori – continuino imperterriti a scrivere e sviscerare e finanziare vicende siffatte, dove appare sin troppo evidente che c’è qualcosa che non funziona, che non c’è più un legame diretto con il pubblico di riferimento, che c’è una distanza siderale, abissale, tra quello che si sceglie di mettere in scena e quello che può piacere, intrattenere, divertire, far riflettere.

Non aiuta, in tal senso, anzi, la scelta di avere come protagonista Pif, che pure da regista aveva imbroccato almeno un film, La mafia uccide solo d’estate, in cui quantomeno c’era qualche elemento personale e di vissuto biografico). Pif non è un attore e si vede lontano un miglio, sia naturalmente quando dialoga con un gigante della recitazione come Renato Carpentieri, sia quando si trova al cospetto del personaggio della moglie (interpretato da Thony che, al contrario, conferma la sua bravura, dopo Tutti i santi giorni di Virzì), sia addirittura quando viene accostato ai due ragazzini che interpretano i figli, incredibilmente più a loro agio di lui in scena. Con quel suo monotono affrontare ciascuna situazione e ciascuna battuta, Pif infatti abbassa a ogni istante le – sia pur ridotte – potenzialità espressive di ogni singola scena, le estranea da se stesso – e di conseguenza da noi spettatori – per una sorta di brechtismo non richiesto e assolutamente fuori luogo in un film come questo, che vorrebbe porsi come classicamente commerciale, o quantomeno rivolto a una nicchia di spettatori di pseudo-sinistra.
E la scelta di Pif ha portato con sé la decisione di ambientare il film a Palermo, dove anche qui è evidente che l’unica motivazione è di natura produttiva e non espressiva, perché il protagonista è siciliano, perché c’è una film commission in questo momento forte a cui potersi appoggiare, e così via. E di conseguenza Palermo come città, con le sue precipue caratteristiche, non viene mai mostrata, se non – ancora una volta – sotto l’aspetto calcistico, come nel recente film di Walter Veltroni, C’è tempo, che sembra una specie di fratello gemello di Momenti di trascurabile felicità, visto che gli amici del protagonista insistono per vedere una partita del Palermo calcio con lui, mentre lui non vorrebbe, dato che si sente in dovere di passare gli ultimi momenti felici della sua esistenza insieme alla famiglia; e alla fine – persino – si mette anche a vedere la partita e fare pace con i suoi, riuscendo a unire utile e dilettevole, capra e cavoli, per un cerchiobottismo che sa tanto di egoismo e di opportunismo.
Insomma, ci si domanda come si possa risalire, come possa Daniele Luchetti – che è un regista che apprezziamo – ritrovare il bandolo della matassa autoriale e ritrovare un senso del racconto che pare aver perso da troppo tempo, forse proprio da Mio fratello è figlio unico (2007). Ma le sue incertezze probabilmente non sono imputabili solamente a lui, quanto a tutto il sistema del nostro cinema – fatta eccezione per quei grandi autori che riescono comunque a mantenere una loro personalità e una loro coerenza, come Garrone o la Rohrwacher -, un cinema che dà l’impressione di non saper più che pesci pigliare per riavvicinare il pubblico e che allo stesso tempo sembra non voler porsi nemmeno il problema. Un problema che invece c’è, è fortemente percepibile, e si fa di giorno in giorno più grave e irreversibile.

Info
Il trailer di Momenti di trascurabile felicità.
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