Thor: Ragnarok

Thor: Ragnarok

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Proseguono a rotta di collo le avventure dei supereroi marveliani, sempre più vicini alla “battaglia finale”, all’apoteosi e alla sarabanda di star e supereroi di Infinity War. In questo percorso non privo di incidenti di percorso e brusche marce indietro, Thor: Ragnarok si rivela una tappa a suo modo significativa, un evidente cambio di rotta per il Dio del Tuono. Colorato, squilibrato, (troppo) ridanciano, Thor: Ragnarok cancella Kenneth Branagh e Alan Taylor e riparte dalla psichedelia guascona di Gunn e dei Guardiani.

Revengers of the Galaxy

Thor è imprigionato dall’altro lato dell’universo senza il suo potente martello e deve lottare contro il tempo per tornare ad Asgard e fermare il Ragnarok – la distruzione del suo mondo e la fine della civiltà asgardiana – per mano di una nuova e onnipotente minaccia, la spietata Hela. Ma prima dovrà sopravvivere a un letale scontro fra gladiatori che lo metterà contro il suo vecchio alleato e compagno nel team degli Avengers: l’Incredibile Hulk… [sinossi]
We come from the land of the ice and snow
From the midnight sun, where the hot springs flow
The hammer of the gods
W’ell drive our ships to new lands
To fight the horde, and sing and cry
Valhalla, I am coming!
Immigrant Song – Led Zeppelin

Solo il tempo (il tempo probabilmente interminabile e circolare del Marvel Cinematic Universe) ci restituirà il reale peso specifico di Thor: Ragnarok, blockbuster programmaticamente derivativo, squilibrato, stratificato eppure superficiale, multiforme, filologicamente corretto e scorretto. Il giocattolone di Taika Waititi funziona e gira a mille, si arresta e s’ingolfa, riparte, spacca come Hulk, si dissemina di collegamenti forzati al MCU, sfrutta fino all’osso la travolgente Immigrant Song dei Led Zeppelin. Si accoda a Guardiani della Galassia e Guardiani della Galassia Vol. 2. Ricuce lo strappo tra i tentennamenti degli Avengers e le solide certezze di James Gunn.
Un’operazione sconquassata ma non banale, affidata alla verve di Waititi (What We Do in the Shadows, Hunt for the Wilderpeople), alle penne dei fedelissimi marveliani Eric Pearson, Craig Kyle e Christopher Yost, e a un comparto tecnico-artistico a tratti folgoreggiante: rubano gli occhi le sequenze col demone del fuoco Surtur e la sua imponente e implacabile spada del destino; i tableaux vivants sneyderiani con le valchirie e la magnetica dea della morte Hela; le discariche e tutto l’accumulo di cianfrusaglie ed esseri più o meno strani del pianeta Sakaar – piegato ai capricci del Gran Maestro, uno spassoso Jeff Goldblum.
A occhi spalancati si resta di fronte all’ennesima performance e trasformazione di Cate Blanchett, nata per essere Hela. Ma anche per essere Carol, Galadriel, Jasmine, Katharine (la Hepburn di The Aviator) e via discorrendo. Insomma, in casa Marvel avranno pure qualche difetto ma difficilmente sbagliano sulla scelta degli attori, sovrapponendo perfettamente icone cartacee a icone in carne e ossa – anche create ex novo come Hemsworth, il bellimbusto australiano, oramai asgardiano a tutti gli effetti.

Thor: Ragnarok è agile, divertente. È soprattutto consapevole. Consapevole di doversi lasciare dietro le spalle le cupezze shakespeariane, sia narrative che visive. Di potersi lasciare dietro le spalle la Terra e quei giochi col bilancino tra supereroi e star che bramano spazio, visibilità, battute. Pur dovendo sottostare a una serie di paletti, a volte declinati con arguzia (la sequenza ponte con Doctor Strange), Waititi può muoversi in un universo espanso, quasi libero: ed ecco, allora, la deriva da buddy movie, gli eccessi comici, gli improbabili e repentini detour di alcuni personaggi, da villain a eroi con troppa disinvoltura.
Waititi non perde tempo e ci mostra fin dal sulfureo incipit il nuovo volto di Thor e la nuova veste delle sue avventure: un luna park che cerca di replicare il non facile equilibrio gunniano, fatto di ingredienti solo all’apparenza semplici da amalgamare. Ironia e autoironia, comicità dalla grana grossa fin troppo reiterata, qualche slancio drammatico in cerca di una lacrimuccia, la musica a tutto volume e la sovrabbondanza cromatica si mescolano e si fagocitano, funzionando solo in parte e a tratti: la morte, ad esempio, non è palpabile, non ferisce davvero, non lascia traccia nel cuore dello spettatore – siamo lontani dalla parabola (e dalla costruzione del personaggio) di Yondu Udonta o del primo Groot.

Non trova il giusto equilibrio Thor: Ragnarok, ci lascia il classico retrogusto della grande occasione mancata ma ci regala numerose sequenze degne di nota, come l’incipit rockeggiante con Immigrant Song, la lunga macrosequenza su Asgard (con la prevedibile ma godibilissima e adrenalinica reprise dei Led Zeppelin) e le entrate in scena di Hulk e della valchiria di Tessa Thompson. Alla fine, di questo film scricchiolante e volutamente sciocchino, non ricorderemo più di tanto la forzata parentela coi Guardiani, fertile o dannosa a seconda di come la si voglia guardare, ma quei due o tre momenti che ci hanno idealmente riportato su Mongo, al cospetto dell’imperatore galattico Ming, trascinati dalle note dei Queen, affascinati dal roccioso Vultan di Brian Blessed – che doveva essere Odino, ma poi è arrivato Hopkins e un cerchio non si è chiuso. Ma erano altri tempi e le follie non avevano tutti questi (dannati) paletti.

Info
Il trailer italiano di Thor: Ragnarok.
La pagina facebook di Thor: Ragnarok.
Il sito ufficiale di Thor: Ragnarok.
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