Avengers: Endgame

Avengers: Endgame

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È imponente Avengers: Endgame. Lo è per varie ragioni. Deve concludere una saga che ha cannibalizzato l’immaginario collettivo e il box office; deve riempire di mirabilie ogni centimetro degli enormi schermi IMAX; deve dare un senso epico e monumentale alla Fine, ma anche a un nuovo inizio, a nuovi protagonisti. Imponente, ma a tratti anche impotente, costretto a scendere a patti coi film che lo hanno preceduto e lo seguiranno, con regole contrattuali e paletti disneyani, col bilancino del dramma e della commedia, con l’implacabile tempo che passa e che nemmeno la magia del cinema può fermare.

Io sono…

Avengers: Endgame è ambientato dopo la schiacciante sconfitta da parte di Thanos, che dopo aver collezionato le sei Gemme dell’Infinito aveva imposto la sua contorta volontà su tutto il genere umano, sterminando metà della popolazione del mondo, tra cui diversi Avengers. In seguito a questa distruzione, i supereroi rimasti si trovano ad affrontare la sfida più grande della loro vita: risollevarsi e trovare un modo per sconfiggere Thanos una volta per tutte. [sinossi]

Due personaggi, due entrate in scena. Non servono presentazioni per Occhio di Falco, rimasto fuori dai giochi durante Avengers: Infinity War. Lo ritroviamo esattamente dove dovrebbe stare, in un incipit emotivamente densissimo che ci suggerisce una delle direttrici principali di Avengers: Endgame: l’umanizzazione dei supereroi, la centralità dei legami interpersonali, in una sorta di fantasmagorico e fantascientifico melodramma familiare hollywoodiano – dal fertile incontro tra gli accesi cromatismi degli albi marveliani e le infinite possibilità della computer grafica scaturiscono inaspettatamente riflessi a loro modo sirkiani e minnelliani, complicati e struggenti rapporti padre-figlio, un apprezzabile superamento dell’ingessata amicizia virile superomistica, persino parentesi apertamente omosessuali (un primo piccolo passo, per tastare il terreno).
Entrerà in scena anche l’immancabile Bucky Barnes, aka Soldato d’Inverno, in perenne bilico tra straniante comparsa e scialbo personaggio, chiamato come sempre a incarnare un ruolo che proprio non gli si addice: se Occhio di Falco può essere un ottimo esempio di cosa abbia funzionato nella costruzione narrativa e iconografica del Marvel Cinematic Universe, Barnes è la cartina tornasole dei limiti produttivi/creativi di una saga che si è rimodellata pellicola dopo pellicola, costretta a caricarsi sulle spalle non poche scorie, errori, detour. In fin dei conti, ci sarà un motivo se uno sguardo fugace tra Doctor Strange e Iron Man vale più di mille pacche sulle spalle ed enfatici abbracci tra Cap e Barnes…

La serialità è il punto di forza e al contempo il tallone d’Achille di Avengers: Endgame. Sì, certo, lo era anche, con esiti quasi opposti, per Avengers: Age of Ultron e Avengers: Infinity War. Il capitolo conclusivo della saga sembra però accentuare la sua natura seriale, quella fertile e al contempo castrante derivazione dalle avventure cartacee che aveva già attecchito tra piccolo e grande schermo nei primi anni Quaranta con Adventures of Captain Marvel della Republic Pictures e Superman dei Fleischer e poi via via, sotto varie forme, dal minutaggio fulmineo degli episodi e delle animazioni limitatissime di The Marvel Super Heroes (1966) fino alle numerose e ambiziose proposte televisive legate al Marvel Cinematic Universe (Agents of S.H.I.E.L.D., Daredevil e via discorrendo). La base di partenza è l’impero di carta costruito da Stan Lee e soci, con l’aggiunta non secondaria dello strapotere disneyano, ma è anche l’eterno ritorno, il limite, lo schema che si ripete con esiti altalenanti.
Funziona, ad esempio, Captain Marvel. Funziona meno Carol Danvers/Captain Marvel all’interno di Avengers: Endgame, personaggio calato un po’ troppo dall’alto e tenuto volutamente sullo sfondo (se non addirittura fuori campo, lontano, lontanissimo). Volendo allargare lo sguardo alla saga e alle prossime fasi, potremmo considerare Avengers: Endgame come un trampolino di (ri)lancio per alcuni personaggi, con tanto di storici passaggi di consegne, e come una sorta di sontuoso promemoria per Captain Marvel, proiettata soprattutto verso altre galassie. Allo stesso modo, ma in senso rovesciato, convinceva meno il pur frizzante Spider-Man: Homecoming, rivelandosi però un tassello fondamentale per cementificare il rapporto tra il giovane Uomo Ragno e il paterno Tony Stark/Iron Man nel dittico Avengers: Infinity War & Avengers: Endgame. Anche in questo caso, la costruzione narrativa di alcuni personaggi (Peter Parker/Tony Stark/Strange) trova nell’ultimo atto una perfetta sublimazione in pochi significativi gesti: un’esitazione, un abbraccio, un dito alzato per un solo infinito istante.

La difficoltà di racchiudere in tre ore una struttura così complessa e stratificata, resa ancor più ingarbugliata dalle possibilità offerte dalla dimensione quantica, non sembra legata al nucleo centrale della vicenda (Thanos da una parte, gli Avengers storici dall’altra, in mezzo le sei gemme) ma ai lacci e lacciuoli dei personaggi secondari, della fatale indecisione sul destino di alcuni supereroi (l’Hulk post Thor: Ragnarok & Avengers: Infinity War), a quella smania di soppesare lacrime e risate, di riesumare sempre tutti – in questo senso, è emblematico il lungo superfluo ridondante movimento di macchina che passa da un volto all’altro durante il/un funerale. Le tre ore di Avengers: Endgame sono il risultato di scelte, necessità e obblighi diversi rispetto a Infinity War: paradossalmente, con un’altra chiave di lettura e scrittura, si sarebbero potuti tagliare quaranta minuti, aggiungendone altri quaranta più funzionali alla calzante circolarità, al respiro epico, ai temi trascinanti della rinuncia, del sacrificio, della scelta tra la vita e la morte – ancora, in senso più che positivo, Occhio di Falco.
La circolarità e la dimensione quantica, grimaldelli che ci riportano al concetto di narrazione (potenzialmente) infinità del genere supereroistico prima cartaceo e poi audiovisivo, offrono al film e agli spettatori un doppio viaggio nel tempo. Il primo è puramente narrativo, facilmente intuibile, probabilmente l’unica strada percorribile tra tutte quelle – e non sono poche – percorse da Strange. Il secondo è puramente spettatoriale, (già) nostalgico, un omaggio divertente, ammiccante, coinvolgente. Si gioca, si teorizza, si aprono varchi per future avventure (e ritorni), ci si commuove. Ecco, quello che funziona davvero, a parte l’impianto spettacolare quando è finalmente lanciato a briglie sciolte (evitabili i siparietti girl power & black power, dazi oramai da pagare, ma si balla tra calibratissime entrate in scena, acrobatiche coreografie e un pugnace gioco di squadra), è l’afflato drammatico, il coinvolgimento emotivo. Sappiamo già come finirà ancor prima di sederci in sala e le parabole che contano sono sostanzialmente impeccabili – Stark doppiamente padre e figlio, un Cap tra divino e umano e uno smitizzato e amabilissimo Thor, tre strade diverse: alla fine del viaggio, tra bicchieri mezzi pieni e bicchieri mezzi vuoti, quello che conta è il viaggio e il suo ricordo. Come detto, nemmeno la magia del cinema può fermare il tempo. Nemmeno la Disney. Almeno per ora.

Info
Il trailer di Avengers: Endgame.
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