La donna che visse due volte

La donna che visse due volte

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La donna che visse due volte (Vertigo) è con ogni probabilità insieme a La finestra sul cortile e Psycho il più celebrato e studiato tra i film diretti da Alfred Hitchcock. Senza dubbio si tratta del suo titolo più cupo, un’elegia sull’ossessione come primo istinto al possesso dell’altro. Un film sul doppio che vive, ed è già morto. Un film sulla vita che non tale non è (e sulla morte che tale non è), e dunque sul cinema.

Fra i morti

L’avvocato e poliziotto John Ferguson, Scottie per gli amici, soffre di vertigini. Durante un inseguimento sui tetti dei grattacieli di San Francisco, aggrappato a una grondaia e sospeso nel vuoto, vede un collega precipitare al suolo nel tentativo di salvarlo. A seguito di quest’incidente, si dimetterà dalla polizia. Un suo ex-compagno di college gli affida l’incarico di sorvegliare sua moglie Madeleine, vittima di strane ossessioni. L’uomo accetta dopo alcune resistenze, e si innamora della donna, ricambiato. Quando Madeleine muore, apparentemente suicida, non si dà pace. Un anno dopo trova in Judy Barton, una commessa di negozio bruna e appariscente una certa somiglianza con Madeleine. La corteggia insistentemente, la convince a vestirsi, a truccarsi, a tingere i capelli, a pettinarsi come Madeleine… [sinossi]

Nel 1843, in Aut-Aut, Søren Kierkegaard scrive: «L’angoscia si può paragonare alla vertigine. Chi volge gli occhi al fondo di un abisso, è preso dalla vertigine. Ma la causa non è meno nel suo occhio che nell’abisso; perché deve guardarvi. Così l’angoscia è la vertigine della libertà». La causa non è meno nel suo occhio che nell’abisso; perché deve guardarvi. La necessità di guardare, di aprire gli occhi di fronte all’orrido, è la prima scaturigine della vertigine, dell’impressione di caduta nel vuoto. Del desiderio inconscio della stessa caduta. Guardare l’abisso, fissare il vuoto nero e sentirvisi parte. Essere vivi da morti, e morti da vivi. Nel 1843, quando viene pubblicato Aut-Aut, Joseph William Hitchcock, il nonno di Alfred, ha appena tredici anni: si sposerà con Ann Mahoney qualche giorno prima del Natale 1851, otto anni più tardi. Nel 1843, d’altro canto, non solo mancano oltre cento anni alla pubblicazione del romanzo D’entre les morts della coppia di scrittori noir francesi Boileau-Narcejac, da cui verrà tratto Vertigo (La donna che visse due volte nella versione italiana), ma perfino la città di San Francisco è giovane, essendo stata fondata nel giugno del 1776, e Carlotta Valdés, la bisnonna materna di Madeleine Elster, ha appena dodici anni. Si suiciderà quattordici anni più tardi, nel 1857. Un secolo esatto dopo la sua discendente farà la stessa fine, almeno in apparenza, volando giù dal campanile della missione di San Juan Bautista, nella contea di San Benito. È nell’occhio di John Ferguson l’abisso, la vertigine, la tensione verso la caduta, e Hitchcock lo sa bene. L’immagine della spirale, oltre a rappresentare un contenuto grafico di per sé perturbante, serve a costringere l’occhio dello spettatore nella stessa medesima condizione di Ferguson. Debole lui, come gli rimprovererà il magistrato a seguito del “suicidio” di Madeleine, debole lo spettatore. Desiderante lui, che vuole far rivivere tra i vivi ciò che è morto, ignorando che quella morte non l’aveva mai davvero conosciuta, e desiderante l’occhio dello spettatore che vuole che Judy si spogli per rivestirsi, per ricoprirsi di una pelle non sua ma che in realtà è sempre stata sua. Se l’immedesimazione è sempre stato uno dei punti determinanti della politica delle immagini hitchcockiana, nessun film all’interno del suo portfolio artistico ha mai osato tanto quanto La donna che visse due volte. Un inevitabile capolavoro, non per l’innegabile qualità artistica, o per meglio dire non solo per quello. C’è una stratificazione del senso, in ogni singola inquadratura del film, che non appartiene alla storia che viene narrata, e che è estrapolata dal romanzo di Boileau-Narcejac: sarà così un paio di anni più tardi anche per Psyco. Ovviamente Hitchcock opera una lunga serie di modifiche rispetto al testo letterario, a partire dallo spostamento dell’azione dall’originale francese (tra Parigi e Nizza) all’assolata e disperata California; ma non si tratta neanche solo di questo. Il romanzo è un noir ritmato e non privo di riusciti colpi di scena, quale ad esempio lo svelamento dell’inganno cui è stato vittima il protagonista, ma nient’altro. Parla di ossessione come si parlasse di furia, al punto da sovrapporre la discesa nell’abisso dell’uomo alla sua dipendenza progressiva dagli alcolici. A Hitchcock questo interessa relativamente. Come fa a esserci furia nell’ossessione di Ferguson? È lui a essere morto, costretto però a restare tra i vivi. È morto già nella prima sequenza, quando aggrappato per miracolo alla grondaia ha visto cadere nel vuoto il poliziotto che voleva aiutarlo a uscire da quella scomoda posizione. È poi morto di nuovo, quando il corpo di Madeleine è volato nel vuoto, ripetendo l’atto di un’altra morta, Carlotta Valdés. È morto infine quando non riesce a esprimere il suo furore contro Judy, ma non può far altro che perderla ancora, come un ciclo infinito, come la spirale che non ha inizio e non ha fine. Perché è dentro all’occhio, e l’occhio guarda incessantemente, che si sia vivi o morti (si pensi al movimento di macchina che ruota sullo sguardo vitreo di Marion Crane in Psyco). Fra i morti, questa la traduzione letterale del titolo del romanzo di Boileau-Narcejac; è lì che nonostante tutto si trova Ferguson, il più perdente dei personaggi hitchcockiani, quello che meno di chiunque altro riesce a dominare la scena. In tal senso è ovvio che sia l’ultimo rapporto lavorativo tra Hitchcock e James Stewart, colui che aveva proprio fatto dell’occhio l’elemento salvifico e dominante appena quattro anni prima, ne La finestra sul cortile. Lì l’uomo è immobilizzato su una sedia a rotelle, con la gamba ingessata. Ne La donna che visse due volte Hitchcock lo mostra, dopo l’antefatto della grondaia, armato di bastone da passeggio, come se le gambe non sostenessero più il peso dell’occhio, dello sguardo. Rischia l’immobilità, Ferguson, è quindi l’arte statica – la morte –, non il cinema – la vita. In qualche modo è anche James Stewart l’uomo che visse due volte, sopravvissuto a una caduta nel vuoto dalla finestra del proprio appartamento per risvegliarsi in un’altra caduta nel vuoto, evitata stavolta. Ma l’abisso può essere veramente evitato?

C’è un altro passaggio del film in cui Hitchcock rinnova la dialettica tra staticità mortuaria e movimento vitale. È la celebratissima sequenza del museo, durante il pedinamento che Ferguson sta mettendo in pratica per scoprire le reali intenzioni di Madeleine (il marito di quest’ultima gli ha infatti chiesto il favore di seguirla, perché teme che le suggestioni della donna – legate alla figura della già citata Carlotta Valdés – possano spingerla a seguire le orme dell’antenata): una sequenza che Brian De Palma citerà in maniera dichiarata in Vestito per uccidere. Ferguson entra al Legion of Honor e trova la donna seduta di fronte a un dipinto. L’inquadratura è in totale, dapprima da dietro il corpo di Ferguson e quindi, passando per il piano dell’uomo che guarda, torna al totale trasformandosi però da oggettiva a soggettiva. La macchina da presa segue poi il movimento di Ferguson, che attraversa la sala fingendo di interessarsi ai dipinti esposti per osservare da vicino, dalle spalle, la donna. La macchina da presa, di nuovo suggerendo una soggettiva dello sguardo di Ferguson, inquadra la donna di spalle mentre fissa il dipinto che ritrae Carlotta Valdés, che al contrario guarda diritto nell’occhio della camera. C’è una sovrapposizione di elementi tra Madeleine e la donna del ritratto: lo stesso bouquet di fiori, ad esempio, e lo stesso chignon/vertigine ad adornare il capo. Quella spirale manda già in delirio Ferguson? Sicuramente costringe lo spettatore a guardare un abisso, quello di una donna viva che osserva una donna morta replicandone mise e atteggiamento. L’arte immota della pittura si scontra con l’arte fintamente viva del cinema, e crea un’ulteriore dialettica, un’ulteriore vertigine di fronte alla quale si può provare angoscia, horror vacui (una prospettiva simile era già abbozzata in una sequenza cruciale di Rebecca, la prima moglie). Forse Madeleine è ossessionata dal fantasma di Carlotta, e Judy dovrà replicare ogni singolo dettaglio di Madeleine perché Ferguson, il non-morto che non esprime vita, è ossessionato da quel fantasma, che ha surclassato nella sua paura/desiderio il fantasma del poliziotto precipitato dal tetto sulla strada sottostante. Fra i vivi si aggira Ferguson, ma chi è davvero vivo? L’immagine, in greco, si sa, si chiamava εἴδωλον: doppio, apparizione, fantasma, spettro. Il cinema, l’immagine, è già di per sé un ectoplasma. Pretende il doppio, la replica esatta, perché è a sua volta una replica, l’imitazione di una vita che è movimento reale, e non solo supposto, ipotizzato, falsificato sullo schermo. La donna che visse due volte non è solo il racconto di un uomo disperato e ossessivo che pretende che la donna che ha perso riviva nel corpo e nella mente di un’altra che le somiglia come una goccia d’acqua. La donna che visse due volte è anche e soprattutto il racconto di come il cinema non possa esimersi dal compito di imitare la vita, di rivivere eternamente. La natura può permettersi il lusso ultra-umano della vita eterna, come le sequoie millenarie in mezzo alle quali (fra i vivi) Madeleine dichiara a sua volta a Ferguson di amarlo – ma in realtà è Judy a parlare –, per poi raccontargli i suoi incubi. Il cinema sa raccontare la morte, ma non può far altro che replicare la vita, in un gioco infinito di incubi che si accavallano tra loro. L’incubo è il minimo comun denominatore che si muove a mo’ di spirale attorno al film. È nell’occhio aperto, spalancato, ansimante se un occhio potesse ansimare, che si apre il film: l’incubo non appartiene al mondo dei sogni, al notturno rimuginare del cervello, ma si muove fra i vivi, ogni giorno, in qualsiasi momento. L’incubo non è nello sguardo, è lo sguardo. Così nel momento di massima sincerità Madeleine/Judy non può non confidare le sue angosce all’uomo di cui nonostante tutto si è innamorata. “Vedo una stanza, e io mi siedo là da sola. Sempre sola. […] Una tomba. È una fossa vuota, e io mi fermo davanti alla lapide a guardare dentro. È la mia tomba. Vedo una torre, con una campana e un chiostro sottostante. Sembra che sia in Spagna. Un villaggio della Spagna. E di colpo sparisce”. Se fossi pazza tutto si spiegherebbe facilmente, suggerisce Madeleine a Ferguson, che sta cercando di dipanare il senso di quell’incubo ricorrente cui è stato messo a conoscenza. Ma non è la pazzia, a dominare Madeleine, che morirà e rinascerà Judy per morire nuovamente (si comprenda in questo solo passaggio l’enorme peso estetico e di senso che La donna che visse due volte ha rovesciato sulla poetica di David Lynch, da Strade perdute a Mulholland Drive, fino a INLAND EMPIRE), né il desiderio, né l’ossessione, tutti elementi semmai da attribuire a Ferguson. È l’immagine, l’idolo-spettro, il fantasma replicante ed eterno: il cinema. Ferguson è uno spettatore, fin dall’inizio – è il suo occhio, infatti, a dominare lo schermo. Osserva lo spettacolo mortuario che lo circonda: un poliziotto cadere nel vuoto, una donna suicidarsi, un’altra morire in maniera accidentale perché pensa di aver scorto un fantasma, in realtà una suora, senza comprendere che è lei stessa un ectoplasma. Ferguson è lo spettatore, e Madeleine/Judy è il Cinema, l’immagine. L’immateriale non può mai perire in eterno, ma lascia lo spettatore nell’horror vacui, nel tremore dell’angolo buio che non nasconde i mostri ma solo la nostra mente, la memoria, il ricordo.

Il ricordo di un’ossessione che diventa, di nuovo in forma speculare, l’ossessione di un ricordo. In questo senso, nella sua profonda messa in scena del perturbante attraverso il desiderio – conformando un’ipotesi già preconizzata tanto in Rebecca quanto ne La finestra sul cortile, tanto per fare due esempi concreti – La donna che visse due volte è un film profondamente e coscientemente erotico. Per questo è indispensabile per Hitchcock che la protagonista non sia la solita immagine deificata della donna anglosassone (Grace Kelly, Joan Fontaine, Ingrid Bergman), ma la ben più carnale e sessuata Kim Novak, il cui personaggio parrebbe avere sangue spagnolo nelle vene. Nel suo gioco erotico, quasi da gatto con il topo, tra Ferguson e Madeleine/Judy, che vuole proteggere per poter possedere, trattenendo l’immagine nell’occhio per riuscire a dominarla (e qui si potrebbe risalire al mito di Pigmalione, come altri hanno già acutamente fatto osservare), Hitchcock si toglie progressivamente ogni freno inibitore. La seconda parte del film, quella in cui Ferguson non deve più proteggere nessuno – ha fallito, come sempre nella sua vita da spettatore, osservando immobile la morte di Madeleine – ma brama il corpo di Judy, può essere letta come una lunga sequenza di amplesso, quello di Ferguson con l’immagine che l’ha ridestato dalla propria depressione per farlo nuovamente sprofondare nella stessa. L’atto erotico, una volta consumato, porta con sé lo iato, il post-coito. In questo senso Ferguson è quasi l’omicida volontario di Judy: è lui a trascinarla di nuovo al campanile, è lui a portarla sulla cima della torre. È lui, di nuovo, a non far nulla per evitare che cada nel vuoto, dopo aver soddisfatto la sua brama – il bacio da dominatore, e non da dominato. Non esiste film più cupo all’interno della carriera di Hitchcock, neanche il tenebroso Psyco, neanche l’iperviolento Frenzy. Racconto della morte come sublimazione del desiderio dell’uomo, e della spoliazione del corpo dell’amata per ricostruirlo a proprio uso e consumo, in sfregio a ogni identità, La donna che visse due volte è un capolavoro inevitabile, un’opera assoluta che si pone al di fuori del senso comune, del proprio tempo e del proprio spazio, e pretende che lo sguardo dello spettatore faccia lo stesso, anche contro la sua volontà. Necrofilo viaggio tra fantasmi da possedere e desiderare, il film di Hitchcock è la metafora più potente dell’immagine cinematografica, bramata e incompiuta nell’atto di possesso da parte dello spettatore. Se Madeleine aveva aperto la porta per presentarsi a Ferguson dopo essersi lanciata nel fiume (e aver permesso all’uomo di svolgere la sua funzione apparentemente salvatrice), Judy appare come Madeleine sulla porta, immersa nel verde – colore della speranza, e della morte – di un neon che ne stratifica la composizione ectoplasmatica. In quei due sguardi di Ferguson, idealmente posti l’uno accanto all’altro, si annida il senso non solo di un’opera capitale del Novecento, ma dell’essere maschile e forse dell’essere umano in ogni sua forma.

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Il trailer de La donna che visse due volte.

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