Mia madre

Mia madre

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Nanni Moretti torna a raccontare, una volta di più, la dispersione del senso, l’incapacità di leggere il mondo in cui si vive, l’ossessione di un controllo privo di struttura. Mia madre è un film sul linguaggio, e sull’impossibilità di condividerlo con gli altri.

Come libri sugli scaffali

Margherita, una regista, ha iniziato le riprese del suo nuovo film. Mentre sul set combatte con le proprie ossessioni e con le bizze dell’attore statunitense convocato per interpretare il protagonista, sua madre è in ospedale dopo un collasso cardio-respiratorio. Margherita e suo fratello Giovanni fanno i turni per starle vicino, preparandosi ad affrontare l’ineluttabile. [sinossi]

No, le merendine di quand’eravamo bambini non torneranno più. Così come non tornerà il momento in cui, rientrando a casa di notte, si controllava che i genitori non fossero in piedi ad aspettarci. Si può sognare, a occhi aperti (sbarrati, semichiusi) o durante la notte, ma non c’è la possibilità del tocco. Non c’è più materia. Per questo forse Margherita fissa le mani della vicina di letto di sua madre, spalmate di crema idratante da una parente. La materia è qualcosa di inafferrabile, spesso di artefatto, come sul set di “Noi siamo qui”, il film nel quale Margherita dovrebbe raccontare la crisi, la contemporanea/eterna barricata tra operai e padroni: un racconto nel quale non vuole immergersi, preferendo osservare da una posizione laterale. Nulla nella finzione può essere davvero viscerale, neanche l’eccessiva foga interpretativa degli attori.
Michele Apicella in Sogni d’oro sbraitava contro Remo Remotti/Sigmund Freud per le sue urla in scena, e gli intimava di “togliere”, eliminare orpelli alla sua recitazione. Michele Apicella in Palombella rossa affrontava le sue memorie, incapace di comprendere il mondo che gli si stava sgretolando davanti (con un sol dell’avvenire di cartapesta come unico panorama e il PCI che svaniva all’orizzonte) e senza alcuna volontà di invecchiare. L’incomprensione. La totale, estrema, incomprensione dell’esterno.

Anche Margherita, come Apicella (e come il cardinale Melville in Habemus papam), è sperduta al di fuori di sé. Attraverso il cinema non tenta di trovare coordinate per leggere il presente, che lei stessa ammette di non riuscire a capire, ma piuttosto un linguaggio, una struttura, un microcosmo codificato che non presenti crepe, storture, mediocrità. Sua madre langue in un letto d’ospedale, dopo un collasso cardio-respiratorio: una polmonite mal curata ha sfiancato il cuore, e non si può fare altro che attendere l’inevitabile. Accanto al suo letto si danno il cambio Margherita e suo fratello Giovanni, che ha deciso di prendersi un’aspettativa dal lavoro. “Sono stanco”, ammette alla sorella.
È un mondo stanco, e senza più speranza (sempre che l’abbia mai avuta), quello raccontato da Nanni Moretti in Mia madre. Un mondo in cui l’arte e il sapere sono appigli per la memoria, ma non hanno più un reale senso nell’esistente. Melville/Piccoli trovava una spinta inattesa nel riscoprire l’odore del palco teatrale, prima di ripiombare nel gorgo di una carica insensata, vuota, apparente. Margherita non vive sul set, né per il set; sua madre, che è stata professoressa di latino, non trova soddisfazione alcuna nei discorsi degli infermieri. In ospedale si sta instupidendo. A cosa serve il latino, chiede la quattordicenne figlia di Margherita, con il tre fisso in pagella? Alla struttura logica, è l’unica risposta che riesce a darle la madre. Ma che valore può avere una struttura logica in un mondo che non la persegue?
Non è semplice, né immediato, entrare nelle pieghe di Mia madre; per farlo è necessario, o per lo meno utile, comprendere il percorso di Moretti, dai narcisismi ghignanti e quasi sloganistici di Io sono un autarchico all’autobiografismo del dittico Caro diario/Aprile, passando (come si è già accennato) per la saga non lineare di Michele Apicella. Un percorso laterale, in cui Moretti entra ed esce da sé e dai suoi personaggi senza soluzione di continuità.

Lo scarto è definito (ma non definitivo) nell’elaborazione del lutto de La stanza del figlio. La prima vera narrazione che esula dal personale, almeno all’apparenza. Il percorso prosegue con il confuso, e solo a tratti ammaliante, zoom e contro-zoom sull’Italia berlusconiana de Il caimano, e trova finalmente compimento in Habemus papam. Moretti non è più centro, ma è tutto intorno. Non risucchia l’immagine, preferisce gravitarvi attorno.
La regia di Moretti, in Habemus papam e ora in Mia madre, muta il centro del suo sguardo. La frontalità oggettiva con cui l’attore e regista romano proponeva verità inoppugnabili si è aperta al dubbio della lateralità, del “punto di vista” (come evidenzia John Turturro durante una bevuta notturna con la Buy e il produttore del film nel film). Il primo piano frontale, quando è utilizzato, serve a mostrare il crollo di ogni certezza, il languido sguardo verso un’esistenza irraggiungibile, e forse mai realizzatasi neanche nel passato. Per costruire il suo percorso verso la perdita Moretti non ha più bisogno della retorica del dettaglio che veniva utilizzata ne La stanza del figlio come grimaldello per scardinare le resistenze dello spettatore; basta la secchezza di un totale con gli scatoloni pieni e gli scaffali vuoti, per restituire il senso di uno smarrimento per il quale non esiste cura, se non la vita. “Vuole solo vivere, facciamola vivere!” implora Margherita al medico che ha preso in cura la madre; tutti i personaggi di Mia madre sprofondano nel trauma, (in)consapevolmente. Tutti i personaggi di Moretti hanno sempre vissuto nel caos. Ma nel terzo millennio non lo penetrano più, né vi si oppongono con gesti estremi (Bianca). Lo accettano, blandamente. Mia madre è lo scavo di un’umanità addolorata prima ancora che dolorosa, tragica anche nella più sonante delle risate, buffa perché sbilenca rispetto al piano su cui si muove. Tutti in Mia madre parlano lingue che non possono più essere comprese: il latino, morto e sepolto da quasi duemila anni; l’italiano stiracchiato e imperfetto di John Turturro; la lotta, così finta nella sua replica sul set da far apparire quasi reale il musical-pop-maoista messo in scena da Gigio Cimino in Sogni d’oro; il cinema “in fieri”, da cui sempre Turturro vorrebbe fuggire, per tornare nella “realtà”; il cinema finito, post-prodotto, compiuto, che è materia oramai solo per i sogni.

Anche per questo acquista un valore fondamentale la sequenza (tra le più ispirate del film) onirica che vede Margherita in sogno seguire un’interminabile fila ferma davanti al Capranichetta per acquistare il biglietto de Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders. La fila non ha fine, ma al suo interno la donna vede sua madre, suo fratello e perfino se stessa ventenne con il fidanzato di allora. Non c’è solo la memoria di Margherita o quella di Moretti in questo breve spezzone, ma si rintraccia il sogno infranto di una cinefilia che non esiste più (è mai esistita?) e il ricordo di una delle decine, centinaia di sale dismesse della Capitale, e inserite nella lista – in parte raffazzonata – stilata dal Comune di Roma un paio di mesi or sono. In quel breve frammento, in cui si parlano due lingue oramai desuete, quella dei sogni e quella del cinema, Moretti racchiude il senso della ricerca/spaesamento di Margherita. Inadeguata, come il papa in fuga dal Vaticano, al mondo.
La retorica del dolore e della vita de La stanza del figlio e Il caimano è ora pura sincerità dell’atto umano, del dubbio, dell’incapacità di comprendere. Prigionieri di schemi che non sanno mai davvero rompere, i protagonisti dei film di Moretti vagano per Roma, non più scenario di ammirate passeggiate in vespa ma teatro di una tragedia sottile, impercettibile, misterica e a suo modo dolcissima. La perdita, ineluttabile e quotidiana, dell’affetto più profondo. Non esiste cura, non esiste via d’uscita, non vi è modo mai di prepararsi.
Anche Mia madre resta giustamente impreparato, anticipando e smentendo l’inevitabile, per poi mostrarne la lateralità, posandovisi a fianco. Si ride molto, come già in Habemus papam. Ma è un riso contorto, carico di un dolore che è l’accettazione della propria imperfezione. Se è sempre esistito, fin dalla prima inquadratura di Io sono un autarchico, un “cinema di Nanni Moretti”, ora esiste compiutamente e in maniera definitiva, con un’evoluzione che è modifica ma mai smentita, la “regia di Nanni Moretti”. Una regia in cui lo sguardo non è più su di sé, ma sul perché quel “sé” esiste, e come. E dove. E fino a quando. Perché le merendine di quando eravamo bambini non torneranno più.

Info
La scheda di Mia madre.
Mia madre, il trailer.
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