Cannes 2010 – Bilancio
La grandezza di un evento pressoché unico al mondo come il Festival di Cannes non si nota tanto nei giorni di gloria, quando si veleggia col vento in poppa, quanto in quelli in cui è la bonaccia a gonfiare (di poco) le proprie vele. In un’annata da vacche magre, riconosciuta come tale pressoché dalla totalità dei commentatori cannensi, ecco appunto tornare la Cannes bussola della cultura cinematografica internazionale.
Il come è tutto da ricercarsi in quell’annuncio timido e riservato che Tim Burton ha lanciato in mondovisione: quella Palma d’Oro consegnata nelle mani di Apichatpong Weerasethakul è la conferma che il Festival di Cannes è ancora capace di essere il faro per l’industria culturale mondiale, di benedire la nascita di nuovi autori e di lanciarli nel mercato globale. Un colpo di genio quello di Burton che, in un’annata in cui il Concorso Ufficiale è apparso composto da autori sinceramente stanchi (Leigh, Loach, Mikhalkov, Kitano, Lee Chang-dong, Bouchareb…), è riuscito a catalizzare tutta l’attenzione verso l’unico (e per questo meritorio) regista portatore di uno sguardo altro.
La scelta di Burton è ampliamente condivisibile al di là di qualche ragionevole dubbio, che comunque non inficia sulla bontà di una pellicola capace di meravigliare lo spettatore, anche quello più smaliziato. Ciò detto, l’edizione numero 63 del Festival di Cannes verrà ricordata per almeno due motivi: il primo è che non si era praticamente mai vista un’edizione così povera di film e star americane. Se un festival è la fotografia di un particolare momento storico, e su questo siamo tutti d’accordo (anche il direttore Fremaux che lo ha riaffermato proprio per stoppare le polemiche sulle poche presenze a stelle e strisce), allora possiamo tranquillamente affermare che, a differenza di qualche anno fa quando per i festival non era necessaria la presenza di grandi star/grandi film hollywoodiani, adesso le cose son cambiate, e sono i grandi film di Hollywwod a dare lustro a un evento come il Festival di Cannes (e non il contrario).
Giocoforza sarà dunque sempre più il mercato americano con i suoi tempi d’uscita (si parla di un Malick già bell’è pronto, così come di una Sofia Coppola in rampa di lancio), magari più interessati al mercato interno che a quello europeo: Malick e la Coppola di cui sopra, allora, avranno maggiori interessi ad andare a Venezia/Toronto a inizio stagione cinematografica, piuttosto che a maggio inoltrato (comunque sia, magari la scelta di premiare Weerasethakul va proprio in una direzione di svincolamento progressivo dallo strapotere yankee, staremo a vedere).
L’altro motivo di cui sopra è senza dubbio quello che a fronte di un Concorso appiattito abbiamo registrato un fiorire delle sezioni parallele, con in particolare Un certain regard che ha offerto davvero una quantità di film notevoli davvero impressionante. E se Fuori Concorso ha alloggiato probabilmente il meglio del festival, con il fluviale Carlos di Olivier Assayas – prodotto televisivo solo in qualche limite produttivo, per il resto un epico e (anti)romantico capolavoro – a fare da mattatore, nella sezione degli altri sguardi hanno invece trovato posto autentici pezzi da novanta: l’eterno centenario, altro che pezzo da novanta, Manoel de Oliveira; due buoni film rumeni, in particolare Aurora di Cristi Puiu; un ottimo lavoro sempre di confine tra verità/finzione di Jia Zhang-ke; il Godard che prosegue le sue histoires a bordo di una nave o nel suo rifugio svizzero (comunque lontano da Cannes); un interessante indipendente americano (Blue Valentine) con due attori in stato di grazia (Michelle Williams e Ryan Gosling); lo sperimentalismo estremo e metacinematografico di Lodge Kerrigan; chiudendo con un coreano che inspiegabilmente è sempre valutato meno dei vari Kim Ki-duk, Im Sang-soo e compagnia bella (e che evidentemente, a differenza di questi, non ha santi in paradiso tra gli organizzatori di festival europei, né tantomeno tra i critici specializzati), e che risponde al nome di Hong Sang-soo, per il quale finire il film è stata una scommessa (visti i prestiti che ha dovuto chiedere per terminarlo), autore straordinariamente nouvellevagiano che con Ha ha ha (vincitore di sezione) è parso ancor più cupo del solito. A ben vedere, dunque, Cannes 63 va in soffitta con un bagaglio di ottimi film, forse un poco più celati del solito: i pigri hanno avuto la vita difficile, ecco perché si lamentano.