I migliori giorni

I migliori giorni

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Aggiornamento della tradizionale commedia italiana a episodi, I migliori giorni di Edoardo Leo e Massimiliano Bruno mostra un’acuta scaltrezza di marketing, mentre tenta di recuperare l’amarezza e la cattiveria dei maestri anni Sessanta e Settanta. Operazione apprezzabile, ma segnata da limiti apparentemente inossidabili della nostra produzione brillante più recente.

Cattivi, cattivissimi, praticamente buoni

Quattro storie, ambientate rispettivamente alla vigilia di Natale, a Capodanno, per San Valentino e per la Festa della Donna. Nel primo episodio, la cena della vigilia in epoca Covid si tramuta in un reciproco massacro verbale fra i componenti pro-vax e no-vax della famiglia riunita a tavola. Nel secondo, un viscido imprenditore, accompagnato dalla volgare consorte e dalla figlia tossicomane, partecipa soltanto per fini pubblicitari a un cenone di Capodanno organizzato per i senzatetto, ma deve vedersela con il suo ex-autista, malato terminale, che a suo tempo fu licenziato in tronco. Nel terzo, una spenta coppia eterosessuale alto-borghese si trova a festeggiare il venticinquesimo San Valentino facendo lo slalom tra amanti abituali e nuove tentazioni bisessuali. Nel quarto, una vulcanica conduttrice della tv del pomeriggio assiste la figlia adolescente che ha tentato il suicidio e nel frattempo deve combattere con gli autori del suo programma per mettere una pezza a una gaffe misogina avvenuta in trasmissione nei giorni della Festa della Donna… [sinossi]

Per tastare il polso dello stato di salute dell’attuale commedia italiana, niente è più indicato che seguire la filmografia registica di Edoardo Leo e Massimiliano Bruno. Da circa quindici anni i due autori/attori si sono anzi tramutati in robusti protagonisti del cinema brillante di casa nostra, con buoni o ottimi risultati al botteghino e pure accoglienze lusinghiere da parte della critica. Neo-classici, che a poco a poco hanno delineato anche un proprio tratto di riconoscibilità nell’ideazione e realizzazione dei film, sostenuti inoltre dalla parallela notorietà acquisita in veste di attori. Stavolta, con astuta mossa di marketing, Leo e Bruno uniscono le rispettive forze per I migliori giorni, lungometraggio a episodi composto da quattro segmenti equamente divisi tra le regie dei due autori e interpretato da un sontuoso ensemble di divi di casa nostra. Il film rientra in un dittico la cui seconda parte, I peggiori giorni, è prevista in uscita nelle sale ad aprile 2023.Il progetto e l’uscita del film in periodo natalizio denotano una rinnovata scaltrezza commerciale, dal momento che I migliori giorni propone storie tenute insieme dalle più tradizionali ricorrenze festive dell’anno prendendo le mosse dai primi due episodi ambientati fra Natale e Capodanno. In altri tempi avremmo parlato di cinepanettone, modello qui rivisto e profondamente ristrutturato fin dalle sue fondamenta. Con la comicità sbracata dell’epoca Boldi-De Sica il cinema di Leo e Bruno non ha letteralmente nulla da spartire, animato com’è da ambizioni di altro genere e da un gusto tutto fuorché volgare. Anzi, a ben vedere I migliori giorni assume decisamente i tratti di un anti-cinepanettone, mosso dal tentativo di confezionare una commedia amara, amarissima, cinica, dissacrante, tutt’al più romantica, costruita su una disincantata smitizzazione delle feste comandate, solo con qualche sporadica uscita verso la ricerca della risata. Di più: Leo e Bruno cercano di rinverdire pure i fasti dell’antica commedia italiana a episodi, modello produttivo di grandissimo successo per il cinema italiano anni Sessanta e Settanta. E qui si aprono già i primi dubbi, poiché a conti fatti I migliori giorni sembra più un capitolo apocrifo dei Manuale d’amore di Giovanni Veronesi che un diretto discendente di Dino Risi, Ettore Scola, Mauro Bolognini e chi più ne ha più ne metta.

In realtà il film sembra seguire toni, registri e acidità di grado diverso a seconda della festa comandata alla quale il singolo episodio è dedicato. Si possono riconoscere anche le diverse mani di regista nella direzione dei segmenti. Così, Leo esprime la sua tendenza alla commedia di caratteri con l’episodio natalizio di apertura, una sorta di aggiornamento della presunta cattiveria di Perfetti sconosciuti (Paolo Genovese, 2016) spinta verso un nostrano Carnage (Roman Polanski, 2011), qui dedicato a una cerchia familiare e non più di amici o conoscenti, mentre nel suo secondo episodio dà sfogo alle parallele ambizioni personali di autore di commedia romantica con la ronde sentimentale di San Valentino. Bruno, invece, tiene per sé i due episodi più ricchi di affondi socio-culturali, con lo smascheramento di un Capodanno sommamente ipocrita nel conflitto ricchi/poveri e con le crisi di nervi di una conduttrice della tv del pomeriggio alle prese con una rocambolesca e drammatica Festa della Donna. Insomma, le idee ci sono, gli ingredienti pure. Ed è davvero apprezzabile l’impegno ormai decennale di Edoardo Leo e Massimiliano Bruno nel ridare forza, pregnanza e prismaticità a una commedia italiana sempre più abbandonata a se stessa. Purtroppo però si continuano a registrare anche costanti limiti dai quali sembra impossibile liberarsi. Innanzitutto, l’uso e abuso dei sovratoni, della concitazione narrativa e attoriale, delle battute immancabilmente sparate fuori a duecento chilometri orari, delle urla, delle assortite escandescenze. In particolare il primo e il quarto episodio soffrono di tutto questo. Ed è un atteggiamento talmente endemico all’attuale commedia italiana che quando ne è sprovvista smarrisce paradossalmente qualsiasi vigore narrativo finendo nell’evanescente. È il caso dell’episodio di San Valentino, tutto affidato a eleganti semitoni, a frasi melliflue pronunciate sottovoce, ad ammiccamenti seduttivi, col risultato finale di una sbiadita girandola amorosa in cui regna pure un’apprezzabile e franca libertà bisessuale in mezzo a una generale e sorprendente esilità narrativa.

Emerge innegabilmente un gran desiderio di amarezza, di confezionare un film significativo e non banale. Pazienza se poi l’insieme prende le mosse da un cumulo di luoghi comuni. In fin dei conti, la quotidianità di tutti noi è composta anche di questo. E allora il Natale in famiglia è tutto imperniato sui ritornelli pandemici degli anni più recenti, sui tamponi da fare prima di mettersi a tavola, sui vaccinati e i no-vax. Per buona parte dell’episodio sembra di sentire snocciolare una miscellanea delle domande più frequenti che hanno occupato la nostra quotidianità per due anni. Nuovi luoghi comuni, certo, ma intanto è anche la prima volta che vediamo tutto ciò rappresentato al cinema. È da registrare dunque almeno il merito di voler stare sul pezzo, di riportare magari la nostra commedia verso quel modello di specchio viaggiante sull’attualità sociologica del nostro Paese che ha caratterizzato anni Sessanta e Settanta, e a suo modo pure gli Ottanta. Purtroppo però quegli inarrivabili modelli ricoprivano tale funzione senza esserne coscienti fino in fondo, e ciò permetteva loro di mantenere un’irripetibile freschezza espressiva. Nella commedia italiana di oggi, invece, è spesso percepibile un rigido e macchinoso strato di consapevolezza, cosicché il luogo comune risulta davvero elencato, meramente enumerato e non realmente vissuto. È la stessa differenza che corre tra vivere ed essere coscienti di vivere. Altro peccato ricorrente è la sbandierata cattiveria dalle polveri bagnate. In tre episodi su quattro di I migliori giorni i protagonisti si dicono cose terribili, agghiaccianti, schiaccianti. Eppure non entriamo mai in empatia con loro, non siamo mai intimamente annichiliti come davanti, ad esempio, all’umiliazione del Baggini di Ugo Tognazzi in Io la conoscevo bene (Antonio Pietrangeli, 1965). Tutto quel rumore, quel vociare ininterrotto arriva costantemente a noi come materia artefatta, troppo pensata, troppo scritta. Cosicché cotanta cattiveria non provoca mai né riflessione né vera partecipazione, e la verifica finale è data dalla rapida chiusa a barzelletta che manda un po’ tutti assolti – questo vale sia per l’episodio natalizio, sia per l’ultimo episodio ambientato in ambito televisivo, sia per il segmento realmente più cupo, quella resa dei conti a Capodanno che, dopo non aver risparmiato nessuno (sono cattivissimi pure i poveri, altro che esseri angelicati…), si conclude con una tiepida rivincita.

Non aiuta infine l’abitudine ormai consueta nel cinema italiano di ambientare i film in scenografie assai poco credibili. Anche in I migliori giorni fluttua spesso il fantasma di un idealizzato cinema brillante americano, fatto di appartamenti, luoghi di lavoro e ristoranti elegantissimi, luci soffuse, professionisti fotogenici e bizzarri linguaggi – forse siamo noi poco aggiornati, ma fino a oggi non ci risultava che nelle abitudini italiane fosse entrato di comunicarsi l’ora con espressioni come «7 p.m.». Emerge insomma il desiderio di collocare le storie in ambienti da favola, in netto contrasto, oltretutto, con l’intenzione principale di confezionare racconti realistici, amari e disincantati. Malgrado le evidenti buone intenzioni, I migliori giorni, come numerose altre commedie italiane che l’hanno preceduto negli ultimi anni, propone in sostanza un cinema dal quale è davvero difficile farsi catturare. Ormai da decenni attendiamo un’ampia rinascita estetica ed espressiva della commedia di casa nostra che possa anche ristabilire un robusto e costante dialogo con il pubblico. Qualche volta questo accade, gli incassi sono buoni e talvolta ottimi. Basterebbe un filo in più di coraggio, un’uscita poderosa da modelli espressivi ormai sempre più formularici, la riscoperta di una zampata feroce, o anche di un tocco gentile come una piuma. Ma che sia sincero, sentito, intimamente motivato. A quel punto il dialogo si ristabilirebbe pure con la critica, spesso tacciata di essere pregiudizialmente insofferente nei confronti dell’attuale commedia italiana. Nessun pregiudizio. Solo il desiderio, condiviso con gli autori stessi, di veder rifiorire una ricca, variegata, multiforme commedia italiana.

Info
I migliori giorni, il trailer.

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