Non ci resta che il crimine

Non ci resta che il crimine

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Alla sua sesta regia Massimiliano Bruno tocca il nadir delle sue commedie con Non ci resta che il crimine, sgangherata e assai poco divertente rilettura dei viaggi a ritroso nel tempo. Un’opera concettualmente, esteticamente e narrativamente mediocre.

Cinema criminale

Roma, 2018. Tre amici sbarcano il lunario inventandosi un “tour criminale” per i luoghi che furono il teatro delle gesta della banda della Magliana, con tanto di abiti d’epoca. All’improvviso però vengono catapultati nel 1982, nei giorni dei mondiali di Spagna, trovandosi di fronte la vera banda della Magliana, che all’epoca gestiva le scommesse clandestine sul calcio. [sinossi]

Non ci resta che il crimine inaugura il 2019 della commedia italiana – il film esce in sala lo stesso giorno di Attenti al gorilla di Luca Miniero; tra i due contendenti chi vincerà la sfida al botteghino? – palesando una volta per tutte lo stato di terribile crisi del genere nella produzione nazionale. Solo restando agli ultimi mesi del 2018 il pubblico italiano ha potuto incontrare sul suo cammino Cosa fai a Capodanno? di Filippo Bologna, Se son rose di Leonardo Pieraccioni, e i “natalizi” Amici come prima, con la reunion della coppia Boldi/De Sica, Moschettieri del re di Giovanni Veronesi e La Befana vien di notte di Michele Soavi, che arrischia (con ben poco costrutto) il mélange con il fantasy. Senza dimenticare il politico Natale a 5 stelle di Marco Risi, uscito direttamente su Netflix. Una sfilza di titoli nei quali si può trovare un unico, fin troppo evidente, filo conduttore: la crisi non solo dell’immaginario, ma anche della battuta a buon mercato, della facile ironia, della risata di grana grossa. Perché, come testimonia anche Non ci resta che il crimine la commedia italiana non solo non ha idee, ma non riesce più neanche a far ridere. Non c’è divertimento, e non si riesce ad avvertire neanche quello – del tutto supposto – di chi i film li ha portati a termine. Solo un lungo elenco di repressi, reietti, sfigati di vario ordine e grado che si arrabattano in avventure prive non solo di stratificazione, ma della benché minima idea di racconto, di trama, di sviluppo narrativo.
Dispiace davvero che Massimiliano Bruno, dopo aver tentato di trovare una propria strada all’interno del genere, a partire dall’esordio alla regia con Nessuno mi può giudicare, che pure ipotizzava il cambio di prospettiva, sradicando la commedia romana da Prati e Parioli e cercando nuova linfa in periferia, abbia almeno all’apparenza ammainato bandiera bianca. Se già il precedente Beata ignoranza metteva in evidenza un retrogusto stantio, privo di mordente, Non ci resta che il crimine rappresenta in tutto e per tutto il nadir della sua filmografia. Un disastro così grande ed epocale che potrebbe trovare una sua rivalutazione dalle parti del trash, con la messa in scena che dimostra un grado di ambizione che cozza con la superficialità estrema con cui ogni elemento del film viene trattato.

Tutto si ferma all’ideazione in questa sesta incursione dietro la macchina da presa di Bruno – vien da pensare che alla IIF gli stiano facendo pagare a caro prezzo il tentativo di evadere dalla prassi racchiuso in Gli ultimi saranno ultimi, sbalestrato sotto il profilo narrativo ma comunque interessante, ma mal ripagato da incassi molto al di sotto delle aspettative – perché non c’è davvero nulla oltre il fatto che tre amici con poco sale in zucca e ancor meno voglia di mettere in moto il cervello si ritrovano a vivere nel 1982, quando l’Italia calcistica sta per vincere i mondiali e la banda della Magliana sta per essere arrestata. Perfino l’escamotage utilizzato per far tornare indietro nel tempo i tre uomini è raffazzonato, grezzo, per niente lavorato: i tre vogliono sfuggire a un amico dei tempi dell’infanzia, che al contrario loro ha fatto fortuna – e va in giro con due prostitute bielorusse, prendendosi anche apertamente gioco di loro; meglio calare un velo pietoso –, e mentre lui parla al bar si dileguano nel retrobottega fino a ritrovarsi in un varco spazio-temporale. Non per essere puntigliosi, ma si poteva pensare a qualcosa di vagamente logico, forse non scientifico ma per lo meno credibile. Invece nulla. Ma tutto il film è permeato da questo senso dell’approssimazione, della noncuranza: insieme ai suoi altri tre sceneggiatori (Nicola Guaglianone, Andrea Bassi e il fumettista Menotti, già al lavoro con Guaglianone sia per Lo chiamavano Jeeg Robot che per Benedetta follia) Bruno non fa altro che accumulare situazioni su situazioni, senza un criterio realmente narrativo e senza alcun interesse per i personaggi che sta mettendo in scena. Chi sono in fin dei conti questi tre uomini di mezza età? E perché dovremmo appassionarci a loro, solo per la passione che nutrono nei confronti della Banda della Magliana? Si sa che il Sebastiano di Alessandro Gassmann è in crisi con la moglie, e che Giuseppe/Gianmarco Tognazzi è un commercialista senza coraggio ma a parte questo cos’altro ci arriva? Non hanno soldi e vogliono farli. Buono a sapersi.

La verità è che mancano le basi a questo film – ma il discorso come si diceva abbraccia una parte consistente della produzione nazionale – perché possa reggere il peso di ciò che vorrebbe essere, vale a dire una versione all’amatriciana di Ritorno al futuro, con uno sguardo però attento a Smetto quando voglio (e il titolo che rimanda a Non ci resta che piangere della coppia Benigni/Troisi). L’impressione, avvalorata dal finale aperto, è che si intenda dare vita a un’altra saga, con al centro una volta di più sia l’aspetto scientifico – si fa per dire, visto che non esiste spiegazione al viaggio nel tempo, eccezion fatta per qualche stupidaggine sciorinata dal personaggio di Bruno – che quello criminale. E con l’aggravante di aver messo in scena alcuni tra i più famosi criminali. Una storpiatura della Storia che ci si può permettere se si ha l’acume, la profondità di sguardo e il senso reale di ciò che significa narrare del Quentin Tarantino di Bastardi senza gloria, ma che in altre occasioni sarebbe il caso di riporre nel cassetto. La commedia italiana di questi ultimi mesi sembra agonizzare, rievocando nel delirio pre-mortem il cinema che vorrebbe essere (gli Stati Uniti degli anni Ottanta, come già ampiamente dimostrato dal film di Soavi, con i suoi rimandi a Goonies, E.T. e Stand by me) e che non avvicina neanche col binocolo. Non per una questione di risorse economiche però, sia chiaro. Per la totale mediocrità di un immaginario asfittico, privo di amore per la storia e di competenza nello sviluppo. Dopotutto il cinema popolare non fa che rispecchiare – a volte migliorandolo, ma non necessariamente – il volto del Paese. E in una nazione in cui la mediocrità la fa da padrona non si può forse pretendere di più da una commedia. Si potrebbe aprire un capitolo a parte sulla rilettura della Storia (la Roma del 1982 non si fa neanche finta di volerla ricostruire, al di là di un paio di musiche d’epoca e di calendari appesi alle pareti) e sull’interpretazione svogliata di tutti i protagonisti, ma il problema è che non c’è nulla di nuovo in tutto ciò, solo la reiterazione di uno schema produttivo che sarebbe da ribaltare in tutto e per tutto. Sempre che si abbiano le competenze per capire che il burrone era qualche centinaio di metri indietro, e lo si è inforcato senza accorgersene anni fa. Dispiace vedere come anche Massimiliano Bruno, che aveva dimostrato di poter tentare strade alternative, si sia adeguato allo status quo. L’unico dettaglio che ancora lega tutti i suoi film è la presenza sonora della canzoncina “senti come sento il sentimento”. Un po’ poco. Troppo poco.

Info
Il trailer di Non ci resta che il crimine.
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