Duel

Nel settembre del 2023 si festeggeranno i cinquant’anni dall’uscita nelle sale italiane di Duel di Steven Spielberg, inizialmente prodotto per la trasmissione televisiva (la ABC lo mandò in onda nel novembre del 1971). Tornare a ragionare su quest’opera sorprendente, diretta da un regista all’epoca ventiquattrenne, significa riappropriarsi dell’immaginario cinematografico statunitense, fattosi sempre più povero con il passare degli anni.

Il lamento del mostro d’acciaio

David Mann è un rappresentante di commercio, e per lavoro sta attraversando il deserto del Mojave a bordo della sua automobile. Su una strada pressoché deserta incrocia una autocisterna, e la supera dando così il via senza volerlo a un estenuante inseguimento… [sinossi]

Sull’infanzia e l’adolescenza di Steven Spielberg, almeno fino al fatidico – per quanto episodico – incontro con John Ford, chiunque abbia visto The Fabelmans può oramai provare a dire la sua: il rapporto con la crisi coniugale dei genitori, il trasloco in California, i primi innamoramenti, gli episodi di bullismo che il futuro regista subì. A tutto questo ovviamente si aggiunge il suo rapporto con il cinema, con l’idea di poter costruire storie appassionanti attraverso l’immagine in movimento. Sarebbe a suo modo interessante se Spielberg si spingesse ora un passo più in là, e raccontasse il suo primo approccio con il mondo del lavoro (la presa del potere a Hollywood, a voler essere maliziosi, si potrebbe suggerire essere contenuta nello splendido Ready Player One), anche per poter in qualche misura avere reale contezza del fertile sommovimento che dopo i primi vagiti di ciò che passerà alla storia come “New Hollywood” stava ridisegnando i confini dell’industria. Nel dicembre 1971 Spielberg compì venticinque anni, ed è plausibile immaginare che festeggiò con un entusiasmo fino a quel momento sconosciuto, o quasi: nell’arco di dodici mesi, tra gennaio e dicembre 1971, il suo nome era apparso in televisione alla voce “directed by” per Make Me Laugh (episodio della serie Mistero in galleria, per il quale nel 1969 aveva già curato il “Pilota”), LA 2017 (sedicesimo episodio della terza stagione di Reporter alla ribalta), The Private World of Martin Dalton (per il telefilm The Psychiatrist), Murder by the Book (con cui faceva il suo esordio sul piccolo schermo il personaggio del tenente Colombo interpretato da Peter Falk), Eulogy for a Wide Receiver (terzo episodio della prima stagione di Difesa a oltranza), e addirittura il 13 novembre 1971 il pubblico dell’ABC aveva potuto godere della sua prima regia per un film televisivo, l’angosciante Duel. Chissà se il giovanissimo regista abbia avuto contezza, al momento della sua realizzazione, che la storia di un rappresentante di commercio che ingaggia una sfida all’ultimo sangue con una misteriosa autocisterna di cui neanche si vede mai il conducente – eccezion fatta per gli stivali – gli avrebbe cambiato per sempre la vita, rendendolo da un giorno all’altro il nuovo enfant prodige del cinema mondiale.

Si passi ora, con uno stacco di montaggio, dal novembre 1971 – Spielberg si sarà rivisto in televisione? Non ci sono dubbi che la sua famiglia lo abbia fatto – all’8 settembre 1973, quasi due anni più tardi. In Italia ricorre il trentennale dall’armistizio che mise fine al Patto d’Acciaio con la Germania nazista e diede il via alla lotta partigiana, ma è anche il giorno in cui vengono distribuiti nuovi film nelle sale: tra questi c’è anche Duel, che rispetto alla versione trasmessa dall’ABC ha qualche sequenza in più in modo da raggiungere la canonica ora e mezza. La presentazione alla stampa romana dell’epoca è entrata nella leggenda cinefila da quando lo stesso Spielberg, ospite sul palco dei David di Donatello, ha raccontato l’aneddoto, con l’incontro tanto agognato dall’esordiente cineasta con Federico Fellini, uno dei suoi miti. Spielberg, forse il più americano dei registi della sua generazione, senza alcun dubbio il più fordiano (e lo testimonia anche Duel), ha dovuto ricevere la benedizione europea per poter essere riconosciuto da subito come “autore”, lui che altrimenti – chissà – avrebbe rischiato di rimanere infognato nei ritmi produttivi della televisione. D’altronde anche il successivo Sugarland Express, sua prima regia pensata direttamente per il grande schermo guardata con non poco sospetto in patria anche per via dell’argomento trattato (e del modo in cui veniva messa in scena la polizia), venne rivalutata negli Stati Uniti solo dopo l’affermazione – con tanto di premio alla sceneggiatura – ottenuta al Festival di Cannes del 1974. Fu solo con il successo planetario de Lo squalo che l’industria a stelle e strisce si convinse una volta per tutte del talento di questo giovane regista nativo di Cincinnati, in un destino non così dissimile a quello di altri talenti a lui coevi – si pensi anche al solo George Lucas, futuro sodale di Spielberg, e ai problemi che ebbe nel tentare di trasformare in immagini sia American Graffiti che Guerre stellari.

“Diminuzione dei cavalli, aumento dell’ottimismo”, così cantava l’America modernizzata con sardonica mestizia Francesco De Gregori in Bufalo Bill, ma tutto quest’ottimismo in Duel non si respira. I cavalli non sono solo diminuiti, sono completamente scomparsi – e nel cinema di Spielberg in generale appaiono poco, per quanto su uno di loro sia incentrato interamente lo straordinario e in gran parte incompreso War Horse –, ma come si intuisce fin dal titolo che rimanda al concetto di “duello” non è mai venuta meno la legge del west, e il concetto di wilderness. Attraversa una regione a dir poco desolata il protagonista David Mann, anche se la “civiltà” fa capolino nella primissima sequenza, quella in cui partendo dalla soggettiva dell’automobile si lascia il garage di casa Mann, in un tranquillo vialetto con villette a schiera, si fa un rapidissimo passaggio nel traffico cittadino, si entra in galleria in un tratto subito fuori città in direzione Pasadena, per poi ritrovarsi, higway dopo highway, sempre più immersi in una natura selvaggia e desertica, dall’aspetto ben poco ospitale. Mann, che è l’unico vero personaggio del film e dunque ha diritto di conservare nel proprio cognome il termine generico di “uomo”, dovrà affrontare l’insidia più grande, che non è la natura ma ciò che l’essere umano ha creato. La macchina. Il film, trasposizione fedele di un racconto pubblicato sempre nel 1971 da Richard Matheson su Playboy (che lo scrittore stesso sceneggia), è la prima rappresentazione di uno dei punti ricorrenti nella poetica di Spielberg, lo scontro dell’umano con il mostruoso che non è necessariamente l’opposto dell’uomo ma ne è la sua negazione, la macchina distruttrice che può determinarne l’estinzione – in questo senso diventa essenziale all’interno della sua filmografia Schindler’s List, per altri versi l’opera più problematica del regista. L’inquietante autocisterna arrugginita che sbuffa fumo nero pece raffigura la minaccia costante per la quale non si può trovare requie, e che può essere sconfitta solo nel duello, nell’agone dove o si sopravvive o si soccombe. Emblematica a ben vedere proprio la sequenza determinante di Duel, quella in cui finalmente Mann riesce a sbarazzarsi del suo nemico, cogliendolo di sorpresa con l’inganno – come sarà anche per Martin Brody al momento di sparare al carcarodonte – e facendolo ruzzolare nel dirupo. Nel momento in cui il bestione d’acciaio è oramai nel vuoto, prossimo alla disfatta, si sente (almeno con l’audio originale del 1971, la riedizione in dvd ha modificato il suono) il rantolo di un animale agonizzante, che Spielberg aveva ripreso a suo dire da un film sui dinosauri degli anni Trenta – molto probabilmente Il figlio di King Kong di Ernest B. Schoedsack. Il camion è un mostro, né più né meno, un predatore che minaccia la piccola borghesia statunitense che, dal canto suo, è già compiutamente in crisi d’identità come testimonia la telefonata di Mann con la moglie, e il rimbrotto di quest’ultima.

La borghesia americana, depositaria del sogno che si è fin troppo rapidamente tramutato in incubo, verrà braccata per tutta la prima parte della filmografia di Steven Spielberg, almeno fino a quando a metà degli anni Ottanta non sopraggiungerà il tentativo di riappropriarsi del classico, luogo cinematografico mitico proprio perché depurato dalle scorie del quotidiano, e di un mondo che proprio come il bestione autoarticolato sta andando a catafascio, e brama un ultimo duello prima della catastrofe. Nello stesso anno in cui un sublime Monte Hellman con Strada a doppia corsia canta l’inno stonato a una generazione in fuga da tutto, e in primis da sé stessa, l’esordiente Spielberg mostra un uomo vincere la sua sfida contro la wilderness industriale senza poterne però gioire. Nel racconto di Matheson Mann nel vedere l’autocisterna volare nell’orrido prova «un tumulto primigenio, l’urlo di una belva ancestrale sul cadavere del nemico sconfitto». Per Spielberg quell’urlo è muto, perché la vittoria non porta con sé alcun miglioramento, alcuna speranza. Se gli eroi del western classico si allontanavano al trionfo dopo aver conficcato nel petto dell’avversario il giusto quantitativo di piombo per renderlo inoffensivo, a Mann questa postura intemerata non è concessa: l’uomo moderno al massimo può sedersi sull’orlo del burrone, esausto, e lanciare qualche sassolino raccolto da terra. Pochi anni più tardi se ne tornerà a nuoto dall’oceano alla terraferma, accompagnato da stuoli di gabbiani. Sempre in silenzio. Solo al bestiale, nel moderno, è concesso l’urlo prima della morte. Spielberg è in grado di tramutare un racconto all’apparenza esile in una corsa epica, forsennata e tragica, in un thriller mozzafiato denso di soluzioni visive sorprendenti. Era con ogni probabilità dai tempi di Orson Welles e di Citizen Kane che un regista statunitense non esordiva con la forza necessaria a sconvolgere l’immaginario, e a indicare una strada che fosse al tempo stesso estetica, narrativa, e produttiva.

Info
Il trailer di Duel.

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2 Comments

  1. Luca 12/03/2023
    Rispondi

    Recensione molto bella, mi permetto una piccola nota: SUGARLAND EXPRESS fu premiato a Cannes per la sceneggiatura, non per la regia.

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