West Side Story

West Side Story

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Steven Spielberg torna a West Side Story, il musical di Leonard Bernstein, Arthur Laurents e Stephen Sondheim, a sessant’anni di distanza dal clamoroso successo dell’adattamento cinematografico di Jerome Robbins e Robert Wise che sbancò la stagione hollywoodiana dei premi con ben 10 Oscar. Quella composta da Spielberg però, nonostante la fedele aderenza al testo, è una sontuosa marcia funebre, che rintocca la fine delle speranze delle minoranze newyorchesi, destinate a essere inglobate e distrutte dalla gentrificazione, ma anche la fine di una generazione, quella della New Hollywood, oramai collocata in un tempo passato e senza più possibilità di agire sul presente. Un’opera d’arte assoluta, totale, che vibra di umanità e non si chiude nella rappresentazione scenografica teatrale ma si apre alla vita cittadina, al suo lordume, alla sua voglia di urlare la propria libertà.

La gentrificazione del cinema

New York, anni Cinquanta. La gentrificazione sta cambiando il volto di Manhattan, e in un West Side in piena demolizione due gang sono in lotta per il dominio del territorio: da un lato i Jets, di origini europee, e dall’altro gli Sharks, immigrati portoricani. Maria è una diciottenne portoricana, sorella minore di Bernardo, il leader indiscusso degli Sharks. A una festa conosce Tony, di origini polacche, e se ne innamora all’istante. Ma come si può pensare di dar fiato a un amore nel mezzo di una faida così selvaggia? [sinossi]

Un film ha un inizio e una fine. Ha i titoli di testa e quelli di coda. Ha un perché che accoglie lo spettatore in sala, il motivo scatenante della sua voglia di assistere alla proiezione, ma anche un perché che risuona nella testa al termine della visione: perché esiste ciò che è apparso sullo schermo? L’inizio e la fine di West Side Story di Steven Spielberg sono due macigni, non un’ouverture e un explicit come era nel caso dell’adattamento di Jerome Robbins e Robert Wise, ma due elementi di senso che travalicano discussioni più o meno pertinenti sulla “fedeltà” al testo o, peggio ancora, sulla necessità di assistere una volta di più a questo Romeo e Giulietta dei distretti di Manhattan. Il pubblico statunitense sembra aver sentenziato il proprio distacco dal film di Spielberg, se è vero che gli incassi hanno di poco superato per ora i 14 milioni di dollari, cifra ben al di sotto delle stime previste per sperare di raggiungere il “punto di pareggio” rispetto al costo produttivo: si vedrà quale sarà la reazione del pubblico italiano, ma l’impressione forte è quella di trovarsi a tu per tu con un enorme flop, forse il peggiore dell’intera carriera di Spielberg. Nel mezzo della visione, d’altro canto, tutti gli elementi in scena contribuiscono a formare l’idea che l’unico destino possibile al giorno d’oggi per un film simile sia il rigetto da parte del pubblico. Non è casuale, per quanto ovviamente si tratti di una coincidenza – dopotutto West Side Story sarebbe dovuto uscire in sala dodici mesi fa – che a fare man bassa degli incassi sia invece Spider-Man: No Way Home, che attira su di sé tutte le attenzioni della massa di spettatori. Non si tratta in questo caso di rinnovare l’annosa diatriba tra cinecomic e resto del mondo, ma di constatare una ovvietà: le avventure nel “multiverso” di Peter Parker sono il timbro dell’oggi, nella moltiplicazione quasi inarrestabile di eroi, e dunque di vite, di possibilità di risurrezione. West Side Story porta con sé il gravame del passato, che si riflette così spietatamente nel contemporaneo da far vacillare ogni certezza. Non si sopravvive al tempo, e lo spazio è distruttibile, non infinito. I cataclismi superomistici sono sempre ricucibili, in un modo o nell’altro. La distruzione del West Side nel corso degli anni Cinquanta, sulle cui fondamenta New York ha costruito uno dei suoi gioielli contemporanei – il Lincoln Center –, non prevede universi paralleli, ma solo lo sfratto di sottoproletari, i portoricani figli di un’isola che non ha neanche ottenuto di essere considerata Stato, e i figli degli europei non ancora integrati, e quindi non ancora americani. La rivendicazione finale di Anita, con quel perentorio “Io non sono americana, io sono portoriqueña”, è lì a ribadire una delle questioni centrali del film.

Per quanto siano indiscutibilmente interessanti, le riflessioni relative al rapporto burrascoso tra i personaggi del dramma musicale e l’incedere rutilante – e altrettanto selvaggio, ma normato – del capitalismo, così come quelle che hanno a che fare con il razzismo della società, meritano di passare in secondo piano durante l’analisi del film. E allora si riavvolga il nastro, e si riparta dalla convinzione che un film abbia sempre un inizio e una fine, e ci si interroghi sul perché sia stato prodotto e realizzato. Nel 1961 West Side Story iniziava, dopo i titoli di testa geometrici di Saul Bass, con riprese aeree di Manhattan, i suoi palazzoni, i suoi grattacieli, il suo “divenire”. La messa in scena diveniva una questione prospettica, angolare, costruita sulla linearità e la proporzione. Lo spazio scenico riprendeva il concetto di quinta teatrale, di proscenio, la tragedia si sviluppava davanti agli occhi del pubblico, che poteva sempre dominare la sontuosa e articolata scenografia con lo sguardo. In questo modo, e seguendo tali principi, il film terminava, con il recinto del campo di basket che delimitava lo spazio con il mondo esterno – la strada – e gli astanti che si disperdevano in direzioni diverse mentre Chino rimaneva solo con la polizia.

Anche Spielberg inizia su Manhattan, ma quello che viene ripreso sono solo macerie, calcinacci, residui di un passato recente in cui ancora quelle case popolari erano abitate, prima che il comune le sventrasse per creare appartamenti per l’alta borghesia, dove i portoricani potranno continuare a vivere, ma solo come portieri, e la feccia europea che non si è integrata verrà direttamente spedita via, in chissà quale angolo della città che prima poi, come l’erosione della roccia, arriverà a cacciarli ancora, e ancora, e ancora. West Side Story nel 2021 inizia sulla scritta che indica come lì verrà costruito il Lincoln Center. La macchina da presa compie un movimento a salire per svelare la devastazione, le ruspe, le palle da demolizione pronte all’uso. In quel dolly, in quel semplice e raffinato movimento di macchina, c’è già il senso del film. Si corra per un istante avanti con la mente alla chiusura, alla fine: To Dad, è la dedica che Spielberg applica subito prima dello schermo nero, dei titoli di coda. Si torni ora indietro, a quell’immagine di distruzione che è già cinema: il West Side come Xanadu, la roccaforte di Charles Foster Kane, mondo di fantasmi ancora abitato. Anche qui, a ben vedere, è previsto un no trespassing: non si può intralciare il lavoro in corso, ed è meglio non mescolarsi con la teppaglia che ancora resiste, come i topi nelle intercapedini, in quelle vie e in quegli appartamenti.

Più volte compie un movimento a salire la macchina da presa di Spielberg nel corso del film, come ad esempio nell’articolata e splendida sequenza dell’incontro notturno di Maria e Tony dopo il ballo: quando Tony si arrampica sulle scale antincendio sembra quasi di rinnovare l’atto di ascesa di Wade Watts / Parzival in Ready Player One. Ma qui, di nuovo, non è prevista alcuna dimensione alternativa. E ancora, nel finale, la camera sale non tanto a svelare la lacrimata sepoltura di Tony – in uno spazio condiviso, finalmente, l’emporio di Valentina che non a caso è un personaggio inventato di sana pianta da Tony Kushner, lo sceneggiatore che per la terza volta Spielberg ha voluto accanto a sé dopo Munich e Lincoln, altri due film sull’America e la sua eterna ri-fondazione; Shark e Jets possono condividere lo spazio per l’ultima estrema resistenza, ovviamente vana – ma le assi distrutte, lo spettro di un mondo spazzato via che ancora resiste all’occhio, ma per poco. Al di là della fedeltà al testo, a quello cinematografico e non a quello teatrale (si veda l’utilizzo dei testi, che è della versione di Robbins e Wise, e non quella di Broadway: in tal senso particolarmente esplicativa la rappresentazione di America), che può colpire soprattutto i cultori del musical, c’è ben altro da approfondire in West Side Story e dispiace che in così pochi lo abbiano compreso, dall’altra parte dell’oceano come in Italia, dove in qualche modo lo si sta comunque leggendo nelle sue qualità “di genere”, senza cercare di scendere in profondità, di muoversi tra i diversi piani come invece fanno ripetutamente nel corso del film i protagonisti – c’è il livello della strada, gli appartamenti ai piani elevati, e il sotterraneo in cui ha vissuto Tony dopo l’esperienza carceraria, ospite di Valentina, la vedova del proprietario dell’emporio che rappresenta l’illusione della possibilità di integrazione, e dunque l’illusione dell’America. Si torni di nuovo a quel To Dad, e si ripassi l’intera costruzione cinematografica allestita da Spielberg nelle due ore e mezza precedenti. Per quanto la colonna sonora, dagli schiocchi delle dita fino al finale, sia costruita su e attorno la musica di Leonard Bernstein, qui arrangiata con particolare intelligenza da David Newman, il film di Spielberg veleggia altrove. To Dad, “a papà”, quell’Arnold Spielberg morto nel 2020 a ben centotré anni di età. A papà, alla sua morte. Per quanto i colori stupefacenti degli abiti, straordinariamente fotografati da Janusz Kaminski, incitino alla sarabanda per le strade, al caldo dell’isola portoricana riflessa nelle grige pozzanghere newyorchesi, quello che si vede non è altro che un riflesso, come quello di Valentina e Tony sul pavimento dell’emporio. Sono fantasmi, i personaggi di West Side Story, che ancora si agitano in quell’angolo di città oramai ricostruito, imbellettato, del tutto dimentico della povertà. Ed è dunque una nenia funebre, una marcia mortale, quella che dipinge con un dolore dolcissimo e straziante Spielberg: ma è un requiem non solo per quel mondo e per quell’America, ma anche e soprattutto per se stesso. Ora che dad non c’è più chi riprenderà severamente Spielberg per essere salito sul tavolo intonando “Dad was a bastard”, una delle linee di testo del musical? Nessuno darà a West Side Story i milioni che meriterebbe di incassare perché quel mondo è ormai morto, dimenticato, abbandonato al suo destino. Come ha fatto Martin Scorsese con The Irishman Steven Spielberg non sta facendo accademia sulla classicità di un genere – materia che potrebbe risvegliare dal torpore solo i feticisti del tecnicismo, ma chi questo pensa di Spielberg non ha mai capito molto del regista di Cincinnati –, ma sta rappresentando una morte. E non quella dei personaggi in scena, più o meno coreografata che sia, ma la propria. La morte sua, dei suoi amici, del suo mondo. Così West Side Story, stupefacente colpo da biliardo della Hollywood classica già al calar delle ombre della sera, diventa territorio di perlustrazione della memoria della Hollywood rinnovata negli anni Settanta, tra baluginii di Coppola e memorie del sottosuolo di una generazione intera.

Consapevole di questo, e della portata terminale del discorso che sta affrontando (e che solo chi non sa scendere in profondità nella lettura dei film può far finta di non vedere), Spielberg affronta la memoria della propria infanzia – il musical di Leonard Bernstein, Arthur Laurents e Stephen Sondheim fu un grandissimo amore dei suoi anni prepuberali – con la libertà creativa dell’arte, lasciando che questa si muova in maniera indipendente, priva dei legacci strutturali che chiunque altro avrebbe incontrato sulla propria strada nel rimettere mano a un materiale così iconico. Quel che ne viene fuori sono due ore e trentasei minuti di arte purissima, quasi astratta nella sua armonia di forme e contraltari, alla ricerca di un assoluto che non è la tragedia di Tony e Maria, e dunque di Romeo e Giulietta, e dunque di Mariotto e Ganozza, ma è il vivere, il respirare aria, l’essere. E l’essere cinema. Immagine in falso movimento che riproduce l’atto del vivere e lo sublima. In una prova di maestria nella gestione di ogni singola inquadratura che non ha quasi eguali nella storia recente della Settima Arte, Spielberg canta al popolo la morte di un’epoca, e si mette dalla parte dei moribondi, dei fantasmi che l’industria di oggi sta cancellando, ristrutturando e ricostruendo, gentrificando l’immaginario che ha rappresentato il Novecento. Assistere alla visione di West Side Story, che è un film di Steven Spielberg e non un remake e un adattamento, ma un atto artistico del tutto personale e indipendente, è come assistere nel 1922 alla prima orchestrazione integrale dei Quadri di un’esposizione di Modest Petrovič Musorgskij sotto la direzione di Leo Funtek, o entrare per la prima volta nella Cappella Sistina. Il testo preesistente resta come memoria, ma si tratta di una memoria superficiale che sottende ben altro: non un testo ma un testamento. Questo non vuol dire che Spielberg non dirigerà altri film, anzi è ben noto come il suo nuovo progetto abbia già una data ufficiale di uscita. Ma qui, in queste macerie che non abbandonano lo sguardo neanche durante i titoli di coda, c’è il suo cuore. Non seppelliamolo.

Info
Il trailer di West Side Story.

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