Don’t Look at the Demon

Don’t Look at the Demon

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Don’t Look at the Demon segna il ritorno alla regia, dopo quasi un decennio, per il malese Brando Lee, che si inerpica in un horror sulle possessioni che cita apertamente Shining ma in realtà guarda in direzione di Blumhouse e del conterraneo – ma oramai occidentale a tutti gli effetti – James Wan. I binari su cui si incardina la narrazione sono a dir poco usurati, ma qualche sobbalzo sulla poltroncina lo si può ottenere.

Ci divertiremo un mondo insieme, vedrai”

La troupe di un programma televisivo dedicato al paranormale, The Skeleton Crew, si trova in Malesia alla ricerca di nuove storie da proporre al suo pubblico. La sensitiva Jules è la star. Con lei il fidanzato produttore Matty, i cameramen Ben e Wolf, fratelli, e la guida locale Annie. Tra le proposte ricevute via e-mail, Jules seleziona quella dei coniugi Ian e Martha, che abitano in una casa isolata dove, secondo loro, succedono strane cose. Sulle prime, Jules è poco convinta: non percepisce nulla e comincia a pensare che in quella casa non ci sia niente di anomalo. Ben presto, però, si rende conto d’essersi sbagliata e che in realtà proprio lì vi sono presenze spettrali molto potenti e pericolose. [sinossi]

Ai cultori dell’horror potrà apparire ai limiti del blasfemo aprire uno scritto critico partendo dal finale del film, ma in questo caso si tratta di andare oltre l’ultima inquadratura e soffermarsi in quel breve spazio liminare che anticipa i titoli di coda. Lì, su schermo nero, il regista Brando Lee inserisce la scritta “In memoria del mio amato maestro Sua Eminenza Kyabje Tsem Rinpoche (24.10.1965 – 04.09.2019)”, con tanto di foto a mo’ di santino del trülku – uno dei tre corpi del Buddha, quello fenomenico – taiwanese di nascita ma che in Malaysia fondò la Kechara House Buddhist Association. Nella dedica in calce a Don’t Look at the Demon, film che parla di eventi passati, di possessioni, di demoni che prendono corpo per via delle iniquità dell’uomo, c’è dunque una dichiarazioni d’intenti, o quantomeno un riferimento culturale che smarca in maniera evidente questo canonico racconto da brividi che giustamente trova spazio in sala in estate in Italia – da sempre stagione eletta alla paura cinematografica – da quella prassi narrativa ed estetica in cui invece, volente o nolente, si trova a galleggiare senza una particolare identità. È anche interessante notare come a scrivere il film sul soggetto di Lee, di origine cinese e di credo buddhista, vi sia il musulmano Alfie Palermo: Don’t Look at the Demon non guarda al rituale religioso, ma semmai al concetto di preternaturale, di qualcosa che supera il corso naturale degli eventi e diventa inspiegabile agli occhi dell’umanità. Non bisogna guardare il demone, forse perché un po’ nietzschianamente quest’ultimo guarderebbe dentro l’osservatore, e Lee ammonisce fin da subito lo sceneggiatore su quanto sia pericoloso imitare la bestialità demoniaca. C’è infatti un’altra scritta su sfondo nero, stavolta in apertura, che non si può fare a meno di tralasciare e che afferma: “KUMAN THONG (Thai: กุมารทอง) I feti essiccati di bambini morti quando erano ancora nell’utero materno. Si diceva che gli stregoni avessero il potere di evocare questi bambini nati morti e di adottarli come figli per sfruttare il loro aiuto nelle loro imprese. Questa pratica è stata infine vietata”.

Lee vuole trovare il punto di galleggiamento che gli consenta di muoversi all’interno della tradizione magica del sud-est asiatico senza allo stesso tempo smarrire l’estetica occidentale, che volteggia in modo evidente dalle parti della Blumhouse o delle produzioni di James Wan (che dopotutto è nato in Malesia prima di trasferirsi ancora bambino in Australia e successivamente negli Stati Uniti). Non è casuale che il film si articoli attorno a una dialettica aperta tra il credo locale, con i suoi riti, i suoi dogmi, le sue prassi, e l’occidente incarnato dalla troupe televisiva la cui star è la bella sensitiva Jules, alla ricerca di misteri da poter guardare attraverso l’occhio della camera. Moderno contro ancestrale, tecnica contro fede, con alla base l’unico elemento possibile di congiunzione: la memoria. La sceneggiatura di Lee e Palermo, pur non raffazzonata, non svela chissà quali intuizioni, e chiunque abbia avuto modo di vedere in vita sua due o tre horror incentrati sulle possessioni demoniache potrà rilassarsi anticipando buona parte dell’intreccio, ma i sobbalzi sulla poltroncina sono abbastanza garantiti. Semmai a dirazzare in modo fin troppo evidente è la volontà autoriale del regista – che non dirigeva un film da quasi un decennio e per la prima volta si confronta con l’orrore – di confrontarsi con un pezzo da novanta non solo dell’horror, ma dell’intera storia del cinema: Don’t Look at the Demon presenta infatti in scena un personaggio che è la replica palese del Lloyd in cui si imbatteva nel suo girovagare delirante per l’immenso Overlook Hotel, il Jack Torrence di Shining. Ovvio che nel momento in cui ci si confronta con un’opera come quella di Kubrick le articolazioni del proprio film – per di più produttivamente piccolo, e dunque di suo già con il fianco aperto alla buriana – inizino pericolosamente a scricchiolare. Per il resto, con qualche effettaccio pur gustoso, e l’intensa interpretazione di Fiona Dourif (qualcuno la ricorderà in parti secondarie in The Messenger di Oren Moverman, The Master di Paul Thomas Anderson, e Tenet di Christopher Nolan: qui dimostra di poter concentrare su di sé lo sguardo dello spettatore), Don’t Look at the Demon svolge in modo sufficiente il suo compito, a meno di non riporre aspettative eccessive in un film che dichiara fin dalla primissima sequenza la direzione intrapresa, e probabilmente anche l’obiettivo da raggiungere. Lee dirige con stile classico, rifuggendo dalla tentazione del found footage che pure la presenza in scena della troupe poteva suggerire: potrà apparire un dettaglio, ma basta anche questo a far tirare un piccolo (piccolo) sospiro di sollievo.

Info
Il trailer di Don’t Look at the Demon.

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