Il colore viola

Il colore viola

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Con Il colore viola per la prima volta Steven Spielberg abbandona il cinema di “intrattenimento”, tentando di portare a termine l’ideale rovescio di Via col vento. Operazione mastodontica, che evoca il classico in un’epoca di plastica, Il colore viola si rifugia un po’ troppo spesso nelle comode cavità del romanzo d’appendice, ma non manca di sequenze assai ispirate, in cui il tema caro al regista dell’affetto familiare e del riconoscimento del “diverso” trova nuove traiettorie dello sguardo.

Gospel

Sud degli Stati Uniti, primi del Novecento: Celie è una ragazzina di quattordici anni che a seguito delle violenze subite da parte del padre dà alla luce due bambini, un maschio e una femmina, che le vengono brutalmente strappati. Il padre la fa sposare a un uomo che le usa violenza, ma a un certo punto arriva da loro la sorella Nettie, che ha deciso di scappare di casa in seguito alle molestie sessuali che il padre le rivolge. Nettie è l’unica persona al mondo da cui Celie si senta amata e che ami profondamente a sua volta. [sinossi]

È difficile che qualcuno, invitato a stilare un’eventuale lista dei film imperdibili di Steven Spielberg, si trovi a inserirvi all’interno anche Il colore viola. Salutato come un enorme successo commerciale al momento della sua distribuzione nelle sale, il film divenne ben presto la più cocente delusione dell’allora trentanovenne cineasta statunitense: raggranellate ben undici nomination nella corsa agli Oscar (tra cui miglior film e miglior sceneggiatura non originale, firmata da Menno Meyjes, ma casualmente non miglior regia: quell’anno vinse Sydney Pollack con La mia Africa, e a contedergli lo scettro furono John Huston con L’onore dei Prizzi, Akira Kurosawa con Ran, Peter Weir con Witness – Il testimone, e l’argentino-brasiliano Héctor Babenco con Il bacio della donna ragno) non se ne vide assegnare neanche uno. Una débâcle totale, record che Il colore viola condivide con Due vite, una svolta di Herbert Ross – a dieci nomination senza alcun riconoscimento si isseranno invece Il Grinta dei fratelli Coen, American Hustle – L’apparenza inganna di David O. Russell e ben due lavori di Martin Scorsese, Gangs of New York e The Irishman –, e che creerà quel rapporto di amore/odio tra Spielberg e l’Academy solo parzialmente ricucito con i peana ricevuti da Schindler’s List otto anni più tardi. Otto anni, come il tempo trascorso in prigione dalla povera Sofia, colpevole solo di essersi rifiutata di prestarsi al rituale dialettico servo/padrone, e di aver perfino sferrato un pugno a quest’ultimo. Andò meglio a Spielberg, pronto a riprendersi il ruolo centrale nell’immaginario statunitense già con i film successivi, dapprima L’impero del sole e dunque l’ideale conclusione dell’allora trilogia dedicata a Indiana Jones. Con il passare degli anni la memoria de Il colore viola iniziò a stingersi nella mente degli spettatori, facendosi confusa: dopotutto il ritmo rutilante di Spielberg, che nei successivi trentacinque anni ha portato a termine ventiquattro film – contando anche West Side Story, che uscirà alla fine dell’anno –, ha facilitato l’accantonamento di un lavoro così ambizioso e allo stesso tempo non sempre in grado di mettere a fuoco il centro del proprio discorso, tanto politico quando d’uso delle immagini (ma esiste un uso non politico dell’immagine?). Per comprendere l’assoluta anomalia del ritmo con cui Spielberg riesce a chiudere un film, si consideri che della sua generazione nel medesimo lasso di tempo, Scorsese ha diretto 16 lungometraggi, Coppola 12, Landis 10, Malick 8, Milius addirittura solo 3. Non è semplice che in carriere così puntellate di titoli manchi la caduta grossolana di stile, il titolo completamente da dimenticare o da riporre nel dimenticatoio. Spielberg è in qualche modo un’eccezione in tal senso, almeno in parte: e quella parte molto deve a Il colore viola.

La pubblicazione del romanzo, nel 1982, fu un successo annunciato. Un tema scottante, quello dell’emancipazione black, e un’autrice coraggiosa e battagliera come Alice Walker, attivista che ha combattuto fin dall’adolescenza contro la società razzista, gli Stati Uniti “perbene” degli anni Sessanta. Con Il colore viola sarà la prima donna afrodiscendente a vincere il Premio Pulitzer per la narrativa. Donna, nera, di umili origini (suo padre era un mezzadro, sua madre una cameriera), Alice Walker fu l’immagine di un’America che a sua volta cercava una redenzione forse impossibile, e tutt’ora impensabile. Coetanea di Spielberg, Walker denunciava però anche le ingerenze israeliane nei territori palestinesi, e l’iniquo trattamento della popolazione di Gaza. Regista democratico per eccellenza, ruolo che difficilmente qualcuno potrà aspirare a scippargli, Spielberg è ebreo, e nello Stato di Israele concluderà il suo racconto di Oskar Schindler. Eppure nessuno avrà il coraggio di rappresentare con tanta ferocia il Mossad quanto farà Spielberg con Munich, nel 2006: altra epoca, altro cinema, e forse anche un altro uomo. Ma occorre procedere per gradi. In molti, nella comunità afroamericana, storsero il naso per la scelta di far dirigere a Spielberg l’adattamento cinematografico de Il colore viola: Ishmael Reed, forse il più lucido saggista con uno sguardo socialista sul rapporto tra le razze negli States – insieme proprio a Walker – si chiese perché Spielberg dovesse colonizzare anche l’immaginario degli ex-schiavi, impedendo loro di raccontarsi, e immaginarsi. Un’accusa legittima, e una presa di posizione politica che non può essere minimizzata, perché equivarrebbe a minimizzare i problemi di un film che di passaggi a vuoto ne registra molti. Il colore viola è un film sbalestrato, inesatto, e in qualche misura inconcluso. Trovandosi a maneggiare una materia che fa della parola il suo primo, e in un certo senso unico punto di caduta (il romanzo è interamente giocato sulla progressiva capacità della protagonista nella scrittura, dall’analfabetismo dell’inizio alla presa di coscienza della sua posizione, di genere e di classe, che avviene nel finale), Spielberg cerca traiettorie a lui care, e piomba quindi direttamente nel classico. Una forma di difesa prima ancora che una scelta estetica, in questo caso. Come il piccolo E.T. anche il regista, di fronte a un’opera così dichiaratamente militante – ma una militanza a cui lui non può appartenere, pur magari simpatizzandovi – si chiude nell’armadio. E guarda da lì il mondo alieno che lo circonda.

Il colore viola, che mette in mostra una volta di più la straripante capacità di Spielberg di narrare ricorrendo solo alle immagini, è dominato da ariosi carrelli laterali, movimenti di macchina che accompagnano i personaggi – si pensi anche solo al bellissimo incipit in mezzo ai campi, con le adolescenti Celie e Nettie che giocano –, inquadrature in qualche modo ostacolate da qualcosa (il vetro gelato che permette alle due sorelle di vedere solo una porzione di ciò che accade all’esterno quando Albert va a chiedere Nettie in sposa ottenendo in cambio solo Celie), come se si trattasse di un percorso di avvicinamento progressivo a una terra straniera. Nel suo voler ribaltare i precetti di Via col vento (dopotutto tra i fatti narrati e la loro rappresentazione hollywoodiana intercorrono settant’anni in entrambi i casi), mettendo alla berlina la brutalità bianca pur lasciandola come un fantasma sul fondo dell’inquadratura – esattamente come fece Victor Fleming nel 1939, ma al contrario –, Spielberg guarda al cinema classico, ed è in quel salone museale dove si trovano gli uni accanto agli altri Cecil B. DeMille e Robert Wise che si ferma per dipingere la sua tela. Se è vero che con il già citato West Side Story il regista per la prima volta dirigerà un musical a tutto tondo, non si può celare il fatto che Il colore viola sia un musical nascosto, celato in profondità. La semplificazione e allo stesso tempo l’esasperazione delle psicologie dei personaggi rimandano al genere, così come i movimenti di macchina di Spielberg, e quella tensione tra gospel e blues, le due evasioni dalla schiavitù attraverso l’armonia, che deflagrerà in una delle sequenze più giustamente celebrate. Perché a estrapolare singole sequenze c’è di che rifarsi gli occhi per molto tempo. Il problema semmai risiede nella loro unione, e in quella narrazione forzosa e sforzata: la sceneggiatura di Menno Meyjes, che con Spielberg lavorerà anche per L’impero del sole e Indiana Jones e l’ultima crociata (in questo caso non accreditato), scade con troppa frequenza nel feuilleton. Il romanzo d’appendice, che nell’idea popolare di Walker era la sola possibilità di rappresentazione di un microcosmo ancora troppo al di fuori della società per elaborare narrazioni più complesse, perché il suo valore teorico e resta mero orpello, così ridondante e vetusto da appesantire l’intero impianto scenico. Nelle sue due ore e mezza di durata Il colore viola inanella una serie di svisate retoriche che ammazzerebbero qualsiasi poesia, e solo la straordinaria capacità di sintesi registica di Spielberg evita il tracollo definitivo. Perché a questo cantore degli affetti, sempre ammaliato dalla messa in scena del riconoscimento del “diverso” (diverso perché alieno ma anche diverso perché in evoluzione, come la Celie interpretata con vigore da Whoopi Goldberg), basta un’inquadratura al tramonto su due donne afrodiscendenti, mai mostrate come vittime – eccolo lo sguardo davvero democratico di Spielberg! –, con alle loro spalle un uomo-aguzzino finalmente redento, per costruire il senso della lontananza, della riscoperta di sé e del proprio amore più grande.

Info
Il trailer de Il colore viola.

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