Coco

Ridotto all’osso, l’impianto narrativo di Coco si rivela piuttosto semplice, molto classico. Ma è appunto questa la parola ricorrente e magica, quel punto d’arrivo inseguito per anni da Lasseter e soci: classico, Classici. Coco è un “Classico della Pixar”. Un tripudio di colori, di gioia e lacrime, di acrobazie. Un moltiplicarsi di dettagli, con una complessità cromatica quasi escheriana. Un carnevale che non si placa mai. La fantasmagoria al potere. Spettacolo e sentimenti, sentimenti e spettacolo. Una ricetta senza tempo.

Per chi suona la campana

Il giovane Miguel ha un sogno: diventare un celebre musicista come il suo idolo Ernesto de la Cruz e non capisce perché in famiglia sia severamente bandita qualsiasi forma di musica, da generazioni. Desideroso di dimostrare il proprio talento, a seguito di una misteriosa serie di eventi Miguel finisce per ritrovarsi nella sorprendente e variopinta Terra dell’Aldilà. Lungo il cammino si imbatte nel simpatico e truffaldino Hector; insieme intraprenderanno uno straordinario viaggio alla scoperta della storia, mai raccontata, della famiglia di Miguel… [sinossi]

In un decennio intriso di sequel e prequel, Coco sarebbe da abbracciare e coccolare a scatola chiusa. Un intenso decennio, pellicola dopo pellicola, stagione dopo stagione: come ampiamente pianificato, la Pixar avrà sfornato dal 2009 di Up al 2019 di Toy Story 4 cinque storie originali e sette secondi, terzi o addirittura quarti episodi [1]. Il confronto con il periodo 1995-2008 ci suggerisce qualche semplice considerazione numerica: da Toy Story – Il mondo dei giocattoli (1995) a WALL•E (2008), la Pixar aveva realizzato un solo sequel di pregevolissima fattura e otto storie originali [2]. Nove lungometraggi in tredici anni, contro i dodici titoli del decennio 2009-2019. La disneyzzazione è passata anche attraverso la ferrea cadenza annuale, come per lo sfruttamento intensivo dei defunti Classici negli anni Ottanta, Novanta e Duemila [3].

La lunga e interminabile stagione dei sequel et similia non è questione puramente disneyana, ma attanaglia evidentemente buona parte di Hollywood. E non solo. Premesso questo, torniamo alla Pixar/Disney aggiungendo che la stessa analisi e lettura delle dinamiche della Casa del Topo è piuttosto complessa, vista la natura più che stratificata e multiforme del colosso nordamericano – tanto per dire, mentre gli eredi inconsolabili di zio Walt arrancavano su Red e Toby nemiciamici (1981) e Taron e la pentola magica (1985), sul fronte live action spuntavano solidi fantasy come Il drago del lago di fuoco (1981), l’ineguagliabile sci-fi Tron (1982) e l’orrorifico Qualcosa di sinistro sta per accadere (1983). Chiusa la parentesi della complessità e dei buoni e ottimi titoli, siamo costretti a tornare alla disneyzzazione e ai suoi effetti sul lungo periodo e sui singoli titoli. Coco compreso.
Diretto da Lee Unkrich e Adrian Molina, Coco si accoda al nuovo corso marcatamente family friendly, contrassegnato da una ancor più focalizzata attenzione per la famiglia, con annessi e connessi. Anche in questo caso, tra WALL•E e Up si potrebbe tracciare una linea. Una linea sottile, senza dubbio, che tiene conto della centralità della famiglia nella poetica della Pixar fin dal 1995, ma che adesso appare sempre più lampante e normalizzata nelle storie originali (un piccolo paradosso, visto che in un certo senso prequel e sequel godono di maggiore libertà). La declinazione della famiglia è, in sostanza, la base di partenza della narrazione pixariana, la struttura portante. Disposte le solide fondamenta, gli sceneggiatori possono muoversi tra microcosmi immaginifici alla Inside Out o l’aldilà ultra-cromatico di Coco, ma a passare alla fine è il cucciolo di dinosauro che torna da mamma e papà; Riley, con le sue cinque emozioni e il solito focolare domestico; il nipotino ribelle che rimette insieme i pezzi di una famiglia tradizionalissima…

L’anima tradizionalista della Pixar, come le sue uscite annuali, il merchandising e le scalate al box office, non è dissimile da quella della Casa del Topo che ha sempre distillato con cura innovazione e tradizione, passato e futuro, piglio conservatore e aperture al cambiamento. E se lo Studio Ghibli è sempre stato un faro tecnico-artistico-narrativo per Lasseter e soci, è la Disney il naturale e genetico punto di partenza e di arrivo. Insomma, la famiglia pixariana è un po’ la principessa disneyana, una sorta di mano tesa a un pubblico assetato di calorose rassicurazioni, pronto a immedesimarsi, commuoversi e stringersi in un emblematico abbraccio collettivo.
Coco rientra ampiamente in questo canone. Anzi, in un certo senso ci riporta alla prima fase dei Classici disneyani, alle sperimentazioni cromatiche e musicali del dittico Saludos Amigos (1942) e I tre caballeros (1944), che erano pellicole con intenti anche politici, veicoli per rinsaldare rapporti diplomatici, sondare e conquistare altri mercati, unire e non dividere. Ecco, unire e non dividere: è difficile restare indifferenti al Messico di Coco in questa prima era Trump. In maniera piuttosto sorprendente, Coco è anche un film politico, o quantomeno un veicolo molto utile per scavalcare pregiudizi e abbattere folli muri. La forza persuasiva e tradizionalista della Pixar/Disney passa anche attraverso queste piccole battaglie.

Destinato a essere apprezzato in lungo e in largo e a sbancare il box office internazionale, il film di Unkrich e Molina si immerge senza freni nel sovrabbondante immaginario del Día de Muertos, celeberrima festa dei defunti della cultura messicana – si veda il recente e affine Il libro della vita (2014) di Jorge R. Gutierrez, prodotto da Guillermo del Toro. Un’occasione più che propizia per scatenare tutti i pixel che la Pixar ha affinato nel corso degli anni: dal punto di vista visivo, Coco è infatti un lavoro sontuoso, abbacinante, la cartina tornasole di un miglioramento tecnico-artistico continuo e incessante. Gli artisti della Pixar rielaborano un immaginario già esistente, ne amplificano la portata spettacolare, erigono davanti ai nostri occhi una possibile e indescrivibile città dei morti, una città incantata. E lo fanno seguendo il ritmo accelerato di un’avventura musicale (non musical, quello è terreno disneyano), adattando character design che già si erano rivelati utilissimi, riecheggiando gli altri mondi già sondati da zio Walt (The Skeleton Dance, 1929) e dal dittico burtoniano Nightmare Before Christmas (1993) e La sposa cadavere (2005).
Unkrich e Molina non pescano a piene mani solo dai classici e da Harryhausen, ma attingono sistematicamente dal verbo e dalla prassi pixariana: Coco è Up. Lo è nel riutilizzo del personaggio dell’esploratore Charles Muntz, qui plasmato narrativamente e graficamente nel cantante-idolo Ernesto de la Cruz; lo è in tanti piccoli aspetti, dal design deformed della nonna al ruolo e alla caratterizzazione del cane, alle dinamiche narrative e ai suoi snodi facilmente intuibili.

Ridotto all’osso, l’impianto narrativo di Coco si rivela piuttosto semplice, molto classico. Ma è appunto questa la parola ricorrente e magica, quel punto d’arrivo inseguito per anni da Lasseter: classico, Classici. Non Alla ricerca di Dory, non Cars 3. Coco è finalmente un “Classico della Pixar”. E con estrema consapevolezza, tanto da saper sviluppare su un solido canovaccio (la famiglia, le aspirazioni e i desideri, il ricordo dei trapassati, le ricorrenze e via discorrendo) una sovrastruttura spettacolare debordante, vivissima, pulsante e festante in ogni suo pixel. Un tripudio di colori, di gioia e lacrime, di acrobazie. Un moltiplicarsi di dettagli, con una complessità cromatica quasi escheriana. Un carnevale che non si placa mai. La fantasmagoria al potere. Spettacolo e sentimenti, sentimenti e spettacolo. Una ricetta senza tempo.

Certo, non siamo nelle prima parte di WALL•E, calati in quel silenzio spiazzante e poetico, davvero imprevedibile. Non siamo nemmeno nell’universo spumeggiante di Toy Story, manca lo stupore narrativo, l’inattesa deriva comica di Toy Story 2 o le pennellate orrorifiche di Toy Story 3. Coco si muove su un piano leggermente diverso, vuole stupirci soprattutto con la sua grandeur visiva, tenerci impegnati col ritmo tonitruante, strapparci più di una inevitabile lacrima col grimaldello del ricordo (anche col ricordo di altre lacrime pixariane). Ci riesce perfettamente.

Note
1. Le cinque storie originali sono Up, Ribelle – The Brave (2012), Inside Out (2015), Il viaggio di Arlo (2015) e Coco (2017). Sette i sequel/prequel: Toy Story 3 – La grande fuga (2010), Cars 2 (2011), Monsters University (2013), Alla ricerca di Dory (2016), Cars 3 (2017), Gli Incredibili 2 (2018) e Toy Story 4.
2. Il sequel è Toy Story 2 – Woody e Buzz alla riscossa (1999) e le otto storie originali sono Toy Story, A Bug’s Life – Megaminimondo (1998), Monsters & Co. (2001), Alla ricerca di Nemo (2003), Gli Incredibili – Una “normale” famiglia di supereroi (2004), Cars – Motori ruggenti (2006), Ratatouille (2007) e WALL•E.
3. Dopo il primo brusco stop dell’animazione tradizionale (Mucche alla riscossa, 2005), l’animazione tradizionale disneyana chiude definitivamente i battenti nonostante la buona resa de La principessa e il ranocchio (2009) e il gioiellino Winnie the Pooh – Nuove avventure nel Bosco dei 100 Acri (2011). Trovato il bandolo della matassa della computer grafica dopo qualche imbarazzante tentativo e i primi raggi di sole, la Casa del Topo ha innestato la consueta marcia da Rapunzel – L’intreccio della torre (2010), e coi successivi Ralph Spaccatutto (2012), Frozen – Il regno di ghiaccio (2013), Big Hero 6 (2014), Zootropolis (2016) e Oceania (2016), potendo così contare sul doppio binario Pixar e Disney.
Info
Il sito ufficiale di Coco.
Il trailer italiano di Coco.
La pagina facebook di Coco.
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