Eva

La seduzione dell’arte, giochi di specchio tra verità e finzione, la creazione e la sua vendetta. Eva di Benoît Jacquot è un divertissement contorto e ambizioso, segnato da stanchezza e scarsa ispirazione. Con Isabelle Huppert. Passato in concorso all’ultimo festival di Berlino, adesso in dvd e blu-ray per Teodora Film e CG.

Bertrand sottrae a un anziano scrittore morente la sua ultima pièce teatrale e ne ricava un grande successo. Incastrato dalla sua natura di impostore, l’uomo si trova a un’impasse poiché tutti si aspettano da lui una nuova opera vincente che non è in grado di scrivere. L’incontro con Eva, prostituta d’alto bordo, innesca un gioco di reciproca seduzione, che Bertrand tenta di sfruttare traducendo passo dopo passo la loro vicenda personale in un nuovo lavoro per il teatro… [sinossi]

Ritorna spesso nei dialoghi di Eva (2018), ultima fatica di Benoît Jacquot passata in concorso alla scorsa Berlinale, un giochetto sul “terzo livello” d’ironia, cioè quando l’affermazione tramite il contrario fa un giro completo e ritorna all’enunciazione pura e semplice, con la piena coscienza però dell’ironia stessa. Si ritorna ad affermare per affermare (o negare per negare), ma ben consapevoli che intanto si è negato affermando. A voler essere crudeli più del presuntuoso protagonista del film, si potrebbe dire che Jacquot giunge a un proprio terzo livello di gratuito. Perché si può essere intelligentemente e profondamente gratuiti, affidarsi cioè ai puri strumenti narrativi denaturandoli di qualsiasi intento connotativo, e aprire al contempo profonde riflessioni sull’esistenza, sulla narrazione, sull’arte, sul cinema. Oppure si può andare “oltre” e giungere a un terzo livello, quando il gratuito ritorna a essere nient’altro che gratuito. Sia pure carico di consapevolezza, ma gratuito rimane. Portato già sullo schermo da Joseph Losey nel 1962, il romanzo di James Hadley Chase diventa infatti tra le mani di Jacquot uno strano oggetto slabbrato, ostentatamente elegante e chiuso in sé, decisamente confuso, stanco, poco ispirato, superficiale. Eva di Jacquot è anche (e soprattutto) un “Huppert-movie”, genere che a poco a poco, con la probabile decisiva chiave di volta de La pianista (2001, Michael Haneke) e qualche precedente psicotico nei film girati dall’attrice per Claude Chabrol, si è definito come una sorta di genere a se stante: film sempre più confezionati su misura per la maschera ormai programmaticamente gelida della grande primattrice, alle prese con ruoli estremi e commisurate vicende. Stavolta in realtà la Eva della Huppert è protagonista se non altro di una vendetta ben motivata, una sorta di nemesi naturale che dalla “vita vera” si abbatte con millimetrica precisione su un tentativo di vampirizzazione operato dall’arte. Ma il maggior limite di Eva (che vorrebbe essere con ogni evidenza, invece, il suo maggior pregio) sta nel mescolare continuamente le carte, imbastendo un labirinto che gioca scopertamente sui confini tra verità e finzione, tra diversi piani narrativi, tra sogno/immaginazione/creazione e “vero”. In ultima analisi il vero si disintegra, non trova mai un’effettiva residenza nel racconto. Ogni brano narrativo può essere letto come messa tra parentesi di qualcos’altro. Nel tentativo di ingarbugliare quanto più possibile la matassa, Jacquot allestisce continui effetti-specchio tra i personaggi messi in gioco, ciascuno alle prese con messinscene e autonarrazioni falsificanti, o con vere e proprie strategie messe in atto affinché gli eventi avvengano nel “reale” per tramutarsi poi in materia di racconto finzionale. D’altra parte la finzione sta già nelle premesse: il protagonista Bertrand non è infatti un vero scrittore, ma ha semplicemente acquisito grande fortuna dal furto di una pièce teatrale sottratta a un anziano scrittore deceduto. È una sorta di assistente/escort, Bertrand, ed è a sua volta lo specchio di Eva, prostituta d’alto bordo. L’assunto del discorso parrebbe sostanziarsi in un sentimento di deciso pessimismo nei confronti dell’esistenza e delle possibilità dell’arte, due facce della stessa medaglia che presuppongono maschera e vendita di se stessi. Ci si prostituisce poiché qualsiasi immagine di noi è artefatta e messa all’asta nel consorzio sociale, e l’arte non è un’attività nobile, ma un tentativo di espropriazione della vita condotta sul reale. La risposta del reale (se qualche residuo di essa, in questo gioco di specchi, resiste) non può che essere un’aggressione violenta che nullifica la stessa ragion d’essere dell’uomo d’arte, specie se insincero come Bertrand. Così, l’arte si riduce a ossessione chiusa in sé, l’artista è schiavo del proprio personaggio che non a caso assume i tratti di una squillo dominatrix, e nel paradossale rifiuto del personaggio a farsi narrare (quel “Nessuno” che nel finale annulla di fatto l’identità del creatore) è sancito il ridursi dell’artista a marionetta barbuta e svuotata di qualsiasi senso.

La sostanza del discorso, insomma, sarebbe anche avvincente e corposa. Ma, come detto, Eva è anche un Huppert-movie, così scaltramente confezionato da giocare con l’assenza della protagonista e ritardarne l’entrata in scena – per un quarto d’ora si segue un po’ distrattamente l’avvio delle beghe del meschino Bertrand domandandosi “Mbeh, e la Huppert dov’è?”. Poi appare, in una vasca da bagno, e tiriamo un sospiro di sollievo. La sua prova d’attrice è ottima, e non potrebbe essere altrimenti. Fredda, distaccata, misteriosa, una perfetta immagine di imprendibile desiderio come si conviene a una figura di sfuggente materia narrativa che un falso artista non può comprendere, completare, conquistare, decodificare. Per lunghi tratti Jacquot sembra affidarsi nelle mani della sua star, costruendo un consueto gioco di seduzione reticolare, una ragnatela di avvicinamenti e allontanamenti in cui Bertrand tenta l’impossibile, ossia ingannare il desiderio, sedurre chi di fatto vince sempre nel gioco della seduzione – il proprio personaggio. L’artista, alle prese col personaggio del proprio racconto, è sempre perdente. D’altronde, Eva fu creata da una costola d’Adamo, ma fu lei per prima a porgere la mela all’uomo. Il prodotto della propria creazione assume anche i tratti del proprio carnefice.

In tal senso è ulteriormente funzionale il continuo mutare dell’aspetto esteriore di Eva, che amplifica il gioco di maschere svariando da una parrucca nera a un trucco evidente, alla pura e semplice verità del volto invecchiato della Huppert. Tuttavia Jacquot non sembra in grado di gestire un gioco così ambizioso. Ci vorrebbe più finezza, riflessione, probabilmente una reale e profonda motivazione per scendere negli anfratti della creazione e dei suoi inganni. Jacquot tenta di confondere le carte ricorrendo a strategiche cesure su schermo nero, o affidandosi a specchietti per le allodole – in treno Bertrand ogni tanto se la dorme, il più facile e corrivo degli escamotage. Ci vorrebbe magari anche una minore preoccupazione per una messinscena enfatica nei suoi facili estetismi – luci calde o freddissime, algidi interni e location di esasperata alta borghesia. Eva, a conti fatti, riesce a essere solo antipatico, e malgrado le alte ambizioni si rifugia continuamente nelle soluzioni facili. Ne sono prova anche i ripetuti tentativi di ripiegare sui meccanismi più immediati del cinema di genere, mirati ad ammantare il racconto di una temperatura noir di cui però non si ha voglia di assumersi il peso e la responsabilità. Il film di Jacquot vuol vivere di interrogativi e per questo non può fornire risposte chiare e definitive. Sfrangiato come un’immaginazione in difficoltà nell’atto di creare, il film è fatto di brani che volutamente galleggiano su un’intermittente linea narrativa. Eppure si giunge alla fine con la netta sensazione che la somma dei singoli elementi sia più banale del loro peso individuale. A lasciare questa impressione è soprattutto lo scioglimento che giunge affrettato con una netta accelerata. E l’ultima sequenza, che pure è carica di significato, è banalizzata nelle scelte di messinscena – gli impercettibili ralenti di Jacquot, che pure in Eva ricorrono almeno in due momenti-chiave, si profilano come una risorsa espressiva decisamente debole.

Resta lei, Isabelle Huppert, algida e inarrivabile, qui appena più umanizzata nel versante narrativo che apre uno squarcio di realtà in un castello di finzioni – il rapporto col marito Georges. Stavolta la Huppert fa vibrare in aria il frustino. Quel frustino si allinea bene all’idea centrale del film, la schiavitù dell’artista di fronte al proprio personaggio. Eppure assume anche le sembianze di un perfetto machiavello per affibbiare all’attrice un’ulteriore occasione di personaggio trasgressivo. Così come il leit-motiv musicale di Pensiero stupendo di Patty Pravo, intelligente filo conduttore, finisce per configurarsi come un semplice giro di vite sull’estenuata e decadente sensualità di Isabelle Huppert. Per un film che dura appena 98 minuti, è paradossale constatare che manchi del tutto il senso della sintesi. Jacquot evoca e allude, usa bene gli attori, ma non riesce a stringere sul senso globale. Per cui, eccolo, si arriva al terzo livello. Il gratuito-gratuito. Peccato. Extra: trailer.

Info
Il trailer di Eva.
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