Festival di Cannes 2019 – Bilancio
Prima di archiviare definitivamente il Festival di Cannes 2019, proviamo a tracciare una sorta di piccolo bilancio. Ovviamente abbozzato e sommario, vista la dimensione spropositata della kermesse transalpina. I premi, i film che usciranno, i riflessi opachi di alcune polemiche. L’utilità e l’assurdità di un immenso ingranaggio commerciale, promozionale, (anche) culturale.
Ultimo atto del Festival di Cannes 2019: ha vinto Parasite. Ha vinto Bong Joon-ho. Ha vinto la Corea del Sud. La New Wave, finalmente. Il cinema giapponese, tornato alla Palma d’oro l’anno scorso con Un affare di famiglia di Hirokazu Kore-Eda, aveva dovuto aspettare vent’anni, dal trionfo de L’anguilla di Shōhei Imamura nell’edizione del 1997. Il cinema sudcoreano aspettava invece da sempre. Un sempre relativo, visto che la partecipazione delle cinematografie asiatiche ai grandi festival europei non è un automatismo ed è spesso di contorno – non per la qualità, ma per la considerazione mediatica, delle giurie e persino di buona parte dell’universo cinefilo.
La vittoria di Parasite, amaramente controbilanciata da esclusioni eccellenti e assai discutibili e dall’immancabile premio agli opachi fratelli Dardenne, è la cartina tornasole della presenza qualitativa e quantitativa dell’industria sudcoreana sulla Croisette, del fruttuoso rapporto tra il Festival e il Kofic, che negli ultimi anni ha promosso titoli come Burning, The Day After, The Handmaiden, The Wailing, Train to Busan, The Shameless.
La Palma d’oro è anche un premio all’inesauribile ricchezza e potenzialità del cinema di genere, alla sua declinazione più o meno autoriale: non solo Parasite, ma anche i vari C’era una volta a… Hollywood di Quentin Tarantino, La Gomera di Corneliu Porumboiu e Il traditore di Marco Bellocchio hanno dimostrato per l’ennesima volta che è ampio lo spettro del cinema impegnato e che sarebbe meglio non farsi sedurre troppo dal presunto contenuto (prendiamo come esempio Les Hirondelles de Kaboul di Zabou Breitman ed Eléa Gobbé-Mévellec, ma non è il solo e nemmeno il più colpevole), gettando sempre un occhio alla forma, al linguaggio.
La Palma d’oro premia anche la lungimiranza e il buon fiuto delle piccole e medie distribuzioni, quelle che devono (e che possono) giocare d’anticipo. In Italia, ad esempio, Parasite uscirà con la Academy Two, che negli ultimi tempi ha inanellato Santiago, Italia di Nanni Moretti, Peterloo di Mike Leigh, In guerra di Stéphane Brizé, Oro verde – C’era una volta in Colombia di Ciro Guerra e Cristina Gallego, La donna dello scrittore di Christian Petzold, A Ciambra di Jonas Carpignano, Loveless di Andrey Zvyagintsev. Ecco, i festival servono anche a questo, a fare da volano a titoli altrimenti snobbati dalle grandi distribuzioni, ad aprire orizzonti, a picchiettare sulla spalla di giornalisti, critici, buyers, programmatori di festival e televisioni. Nonostante la pigrizia conservatrice di Cannes, sulla Croisette si riversa il mondo del cinema, quello bello e quello brutto, quello attaccato solo al vil denaro e quello che ha davvero in mente il cinema e la cultura: dal Palais nascono altri festival e progetti, si impreziosiscono i palinsesti, si consacrano o almeno si fanno notare autori e registi, ma anche tanti altri professionisti, giù giù giù fino agli umili accreditati gialli. Nessuna certezza, ma almeno qualche possibilità.
Il rovescio della medaglia è ampio. Cannes fagocita, soffoca, distrugge. Qui si inabissano titoli che avrebbero fatto meglio a scegliere altre strade festivaliere. Si perdono film per strada, intere sezioni. L’onda anomala degli accreditati (stampa, mercato, cinefili) non può ovviamente vedere, coprire, capire tutto. Magari ci si accorge della Semaine de la Critique solo dopo la vittoria del notevole J’ai perdu mon corps di Jérémy Clapin oppure della Quinzaine des Réalisateurs si percepiscono solo le interminabili file – può essere contento il nuovo delegato generale, Paolo Moretti, stretto in un metaforico abbraccio dal numerosissimo pubblico: ha funzionato tutto, da John Carpenter a The Halt di Lav Diaz, dall’attesissimo The Lighthouse di Robert Eggers all’apertura col singolare Le daim di Quentin Dupieux. Ai margini resta quasi sicuramente ACID, sezione sempre interessante, ma è una questione di numeri: ore, giorni, film, occhi, sonno. Tutto, troppo. Andrebbero ripensate molte cose, ma poco cambierà.
Qualcosa è cambiato. Lo spostamento degli orari per le proiezioni stampa ha generato proteste, lettere ufficiali, disguidi di vario tipo. Guardando dal basso, nulla di nuovo. Ecco, la prospettiva delle polemiche, dei pianti, degli scenari apocalittici è quasi sempre raccontata dall’alto, un po’ come gli accreditati stampa che esultavano sulle scale della DeBussy poco prima di entrare alla proiezione di C’era una volta a… Hollywood. Esultavano. Non (tanto e solo) alla faccia di tutti gli altri, ma alla faccia della professionalità e dei suddetti pianti. Discorso lungo, troppo. Ci si potrebbero perdere delle ore sulle file di Cannes, sulle priorità, sul colore degli accrediti e la logica delle assegnazioni, sulle sale lasciate volontariamente mezze vuote. Sugli occhi lucidi per la lotta di classe di Loach (ottimo Sorry We Missed You), poi occhi di squalo. Su Parasite come perfetta metafora di Cannes, del Palais, della divisione in caste.
Tempio delle contraddizioni, il Festival di Cannes è una parentesi nel tempo e nello spazio. Una dozzina di giorni piuttosto folli, stressanti, persino gioiosi. Dipende dai punti di vista, dall’alto e dal basso. Cannes 2019 ha mostrato una serie di crepe organizzative, fatica a contenere la fiumana di accreditati (che fanno numero, volume, notizia), si pavoneggia tra feste e tappeti rossi, ma ci lascia un ottimo bottino. Bong, Tarantino, Malick, Kechiche, Porumboiu, Bellocchio, Diaz, Suleiman, Hausner, Mattotti, Dupieux, Lolli, Kowalski, Mendonça Filho, Miike, Fletcher, Guzmán, Dumont, Serra, Herzog, Eggers, Benki, Ferrara, Moguillansky, Sidi-Boumédiène, Desplechin, Flatform, Forgeard…