Rapito

Anche il piccolo Edgardo Mortara, come Aldo Moro, viene rapito, ma stavolta a ordire la turpe azione non è il brigatismo, bensì lo Stato Pontificio che pretende che un bambino una volta battezzato debba essere educato nel nome di Gesù anche se è di famiglia ebraica. La storia e la Storia tornano a confrontarsi nel cinema di Marco Bellocchio, che riprende le sue riflessioni sulla follia, la fede, e il desiderio, e le applica alla psiche di un bambino nell’Italia non unificata di metà Ottocento. In concorso al Festival di Cannes, e in sala.

Fai bei sogni?

Nel 1858, nel quartiere ebraico di Bologna, i soldati del Papa irrompono nella casa della famiglia Mortara. Per ordine del cardinale, sono andati a prendere Edgardo, il loro figlio di sette anni. Secondo le dichiarazioni di una domestica, ritenuto in punto di morte, a sei mesi, il bambino era stato segretamente battezzato. La legge papale è inappellabile: deve ricevere un’educazione cattolica. I genitori di Edgardo, sconvolti, faranno di tutto per riavere il figlio. Sostenuta dall’opinione pubblica e dalla comunità ebraica internazionale, la battaglia dei Mortara assume presto una dimensione politica. Ma il Papa non accetta di restituire il bambino. Mentre Edgardo cresce nella fede cattolica, il potere temporale della Chiesa volge al tramonto e le truppe sabaude conquistano Roma. [sinossi]

Nel finale di Fai bei sogni, il film che Marco Bellocchio trasse nel 2016 dal romanzo autobiografico di Massimo Gramellini, il protagonista interpretato da Valerio Mastandrea ricorda quando da bambino giocava a nascondino con la madre, sperando di essere “scoperto” per poter ricevere l’abbraccio materno, e dunque la protezione. Edgardo Mortara passa la vita a coprirsi per cercare una protezione che non potrà mai, in nessun caso, trovare: la madre lo nasconde sotto la sua gonna nel disperato tentativo di impedire che le guardie papali possano portarglielo via (che si dice esser stato battezzato, nonostante sia di famiglia ebraica, e non può quindi per le regole pontificie continuare a vivere con i suoi genitori naturali), un gesto che rinnoverà il papa celandolo agli occhi dei compagni di classe durante un nascondino in giardino. La prima notte nel collegio dove viene tradotto una volta portato via da Bologna alla volta di Roma si nasconde sotto le coperte per recitare la shemà, la preghiera che ogni sera recitava con la madre a letto. E di nuovo nel finale, oramai adulto, si protegge sotto le coltri dall’incubo che vede i genitori venirlo a trovare lì, un incubo che è anche desiderio, celato a sua volta perfino a sé stesso. Non fa bei sogni questo bambino e poi uomo rapito in un’Italia ancora non unita, per il solo gesto dell’acqua sulla testa e di un rapido segno della croce. Ma dopotutto nessuno può fare bei sogni in Rapito (era così anche in Vincere, che sotto certi punti di vista con questo ed Esterno notte compone una sorta di trilogia sul dogma del potere, sulla gestione dello Stato come soppressione del desiderio del privato e della sua libertà) ventiseiesimo film “di finzione” nella carriera di Marco Bellocchio e suo ritorno in concorso al Festival di Cannes a quattro anni di distanza da Il traditore (nel 2021, invece, quando si trovò a presentare fuori competizione il documentario autobiografico Marx può aspettare, ricevette dal festival la Palma d’Oro alla carriera), e a uno dalla proiezione integrale di Esterno notte, altra opera in cui la notte non portava con sé alcun sollievo, ma solo angosce, ricordi, sensi di colpa.

Come già Aldo Moro anche Edgardo Mortara viene rapito, e anche se in questo caso non si tratta di un atto eversivo ma di una delibera dell’ordine costituito non si può non pensare a un collegamento, un trait d’union, un punto d’incontro. Questo nuovo film di Bellocchio ragiona una volta di più sulla privazione della libertà non come atto solo ed esclusivamente fisico, e dunque ovviamente politico, ma come atto psicologico, che dunque rientra nel campo della mente e delle sue circonvoluzioni. Pio IX, interpretato con sguardo perennemente dissennato da un sulfureo Paolo Pierobon, è tanto spietato e sarcastico quand’è nel pieno possesso delle sue facoltà mentali quanto debole, e pronto a rompersi nel pianto del terrore nel cuore della notte, quando ad assalirlo è l’immagine sognata di ciò che durante il giorno viene relegato a “fola”. C’è una scissione profonda nei personaggi “vaticani” di Rapito, che si contrappone alla nettezza d’azione della famiglia bolognese da cui Edgardo è stato strappato: una scissione dovuta a una fede nell’immateriale che è però tradotta solo ed esclusivamente in un potere temporale. Nell’impossibilità di trovare il punto d’incontro tra la virtù della fede (dogmatica, come sottolinea con estrema acutezza una delle sequenze più illuminanti, dov’è lo stesso Papa a interrogare Edgardo e gli altri figli di ebrei che sono stati battezzati, e dunque sono considerati forzatamente “figli della chiesa cattolica”) e le questioni fiscali, economiche, giudiziali, la mente che non può che vacillare, e crollare. Era nella lucidità estrema, nella spoliazione del suo peso materiale, vale a dire quello politico, che l’Aldo Moro interpretato da Fabrizio Gifuni – qui eccellente Pier Gaetano Feletti, celebre inquisitore domenicano – cercava di superare il trauma del sequestro, e della prigionia; sperduto, spaesato, e senza possibilità di costituire un sano conflitto familiare dato che la sua famiglia non la vede se non in singoli momenti, Edgardo Mortara non può che tracimare nella follia, che è anche quella di un tempo in cui il vetusto gravare di un’istituzione politica che non si adatta al “moderno” non può che entrare in collisione con le pulsioni popolari (“Abbasso il Papa Re”, recitano i muri di Roma appena fuori dal Vaticano). Così Edgardo, che una balia molto superstiziosa benedisse di sua mano perché, temendo che il neonato morisse di febbre verminosa, non voleva finisse nel limbo, nel limbo ci finisce proprio per questo gesto a suo modo protettivo, ma colpevole di “rito”.

La ritualità nel cinema di Bellocchio è l’anticamera della perdita del ragionamento, e così come contrapponeva in Buongiorno, notte la cena comunitaria dei brigatisti con la comunione cattolica, allo stesso modo in Rapito il rito ebraico e quello cristiano vengono rappresentati in montaggio parallelo, come se appartenessero allo stesso schema umano, e dunque pervenissero involontariamente a un medesimo risultato – come poi sottolinea la rappresentazione della comunità ebraica romana, schiacciata dal potere vaticano ma adattatasi alla situazione accettando il rituale, la forma verbale e fisica con cui relazionarsi al “nemico”. Edgardo, indottrinato da un potere che lo gestisce come cartina di tornasole della propria azione liberatrice di ciò che è impuro – come la fede ebraica, che era anche quella di Gesù prima che egli “evolvesse” –, si abbarbica alla religione in modo dogmatico, cercando quella protezione che non ha più potuto avere fin da quando era solo un piccolo bimbo di sei anni. Così, se la notte si alza per liberare in sogno il Cristo dal crocefisso cui è stato appeso a monito eterno della sofferenza della vita, di fronte al fratello che è venuto a sua volta a “liberarlo” combattendo con l’esercito Savoia e passando attraverso la breccia di Porta Pia non può che opporre un netto rifiuto, perché tornare a Bologna significherebbe tornare ebreo, e dunque accettare una dottrina che ricorda solo nel sogno, come atto distinto dal vivere. E poco importa che il fratello sia ateo, e voglia solo ricondurlo alla famiglia: Edgardo non può trovare la famiglia, non può trovare la protezione dello sguardo della madre perché anch’essa dovrebbe prima accettare la salvezza del Dio cattolico.

La sua dissociazione tra desiderio, rito, e funzione si estrinseca in modo deflagrante e definitivo quando dopo aver cercato di proteggere il feretro di Pio IX dall’assalto dei popolani che vorrebbero gettarlo nel Tevere come estremo dileggio a una figura considerata tirannica, è lui stesso a lanciarsi contro la carrozza urlando di volerlo buttare al fiume “quel porco!”. Lo sguardo di Bellocchio, sempre netto, pittoricamente chiaro ed espressivamente dialettico, non accetta invece quel furore, figlio di una distonia del pensiero che non ha saputo o voluto mai elaborare sé stesso, comprendersi nelle pulsioni più profonde, accettare la propria debolezza. Tra il lirico e il verista Rapito urla una volta ancora la bestemmia del regista contro un potere che è sempre temporale, e vessatorio (la famiglia Mortara non riceverà alcuna giustizia neanche dal nuovo stato italiano, perché il diritto è del più forte). Il grido disperato di Momolo, il padre di Edgardo, è così dissimile dalla bestemmia gridata dal fratello del protagonista de L’ora di religione? Così la dolcezza dello sguardo di Bellocchio va verso i genitori di Edgardo – straordinari Fausto Russo Alesi e Barbara Ronchi –, verso i fratelli, verso le sorelle, e ancora verso la madre del piccolo Simone malato di cuore e morto lontano dai suoi affetti, nel letto di una spoglia camerata. C’è una profondità emotiva in Rapito di fronte alla quale è impossibile rimanere immoti, una vertigine che è sempre quella del salto nel vuoto, un diavolo in corpo che non può essere eradicato. Si vede nell’immagine del fratello “ritornante” l’impossibilità di Bellocchio di ricongiungersi al gemello perduto, o forse di sé stesso che dopo aver abbandonato Bobbio è stato “corrotto” dal dogma del cinema, e di Roma. Nel profondo misterico del sogno Bellocchio si inabissa attraverso uno sguardo laico, puro, che non necessita di sovrastruttura alcuna. Edgardo Mortara morirà novantenne in convento, dopo una vita da prete, senza più nessuna famiglia, e senza più nessun Cristo da liberare dalla sua pena. E non farà mai più bei sogni.

Info
Rapito sul sito del Festival di Cannes.

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