Harry Potter e la pietra filosofale

Harry Potter e la pietra filosofale

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A poco meno di venti anni dalla sua realizzazione Harry Potter e la pietra filosofale, primo capitolo della saga dedicata al giovane mago, continua a dimostrarsi uno dei migliori fantasy prodotti a Hollywood. Dall’incipit a Privet Drive all’arrivo a Hogwarts, fino all’amicizia di Harry con Hermione e Ron e al primo combattimento con Voldemort, il film di Chris Columbus riesce, partendo dall’ottima matrice letteraria, a proporre un immaginario fertile, e inventivo.

A scuola di magia

Harry Potter è un bambino britannico come tanti, anzi più sfortunato della maggior parte dei suoi coetanei. Ha perso appena nato i genitori, periti in un incidente stradale, e da allora vive con la sorella della madre, suo marito e il loro figlioletto, il dispotico Dudley. Gli zii lo trattano malissimo, facendolo dormire nel sottoscala e anteponendogli sempre i desideri del cuginetto. Ma quando Harry compie undici anni qualcosa di incredibile accade: centinaia di gufi assediano la casa recando con loro delle strane lettere, che i suoi zii si rifiutano di leggere… [sinossi]

Cosa sono vent’anni nella vita di Nicholas Flamel, l’alchimista che ha creato l’oggetto magico al centro di Harry Potter e la pietra filosofale? Poco o nulla. Ben diverso si fa il discorso se invece si prende questo lasso di tempo all’interno della storia del cinema: due decenni rappresentano infatti un sesto dell’intero sviluppo artistico, tecnico, estetico e produttivo di quest’arte. In un periodo storico in cui tutta l’attenzione mediatica relativa al mainstream hollywoodiano è concentrata sui cosiddetti “cinecomic”, con tanto di polemiche sul ruolo sempre più prominente che questa sotto branca sta ricoprendo nell’immaginario contemporaneo – inutile star qui a rivangare i botta e risposta tra Martin Scorsese e Francis Ford Coppola da una parte, e James Gunn dall’altra – val forse la pena scostare la mente dall’oggi e tornare al momento di passaggio tra la fine del Novecento e l’inizio del Terzo Millennio. Lì, in quel periodo storico che va dal terrore del bug informatico e arriva al terrore del crollo delle Twin Towers, a Hollywood si tentò una piccola rivoluzione dell’immaginario. Il 16 novembre – due mesi dopo l’attentato newyorchese e un mese dopo l’inizio ufficiale della guerra in Afghanistan – uscì nelle sale statunitensi, canadesi, irlandesi e britanniche Harry Potter e la pietra filosofale, primo capitolo della saga che la scrittrice J.K. Rowling dedicò al maghetto occhialuto; il 10 dicembre dello stesso anno veniva distribuito sul territorio americano La compagnia dell’anello, primo volume in immagini della trilogia tolkeniana Il signore degli anelli, ridotta per il grande schermo da Peter Jackson. Hollywood rinnovava il proprio immaginario, dopo un decennio in cui i blockbuster si erano concentrati su storie profondamente americane (Titanic di James Cameron, Jurassic Park di Steven Spielberg, Independence Day di Roland Emmerich, Speed di Jan de Bont, ma anche Il sesto senso di M. Night Shyamalan). Dopo essersi immersa nella modernità con generi quali l’action e soprattutto la fantascienza – vero motore produttivo in California negli anni Novanta, se ai film succitati si aggiungono i vari Strange Days di Kathryn Bigelow, Matrix dei Wachowski bros. (oggi sisters), Men in Black di Barry Sonnenfeld, Il quinto elemento di Luc Besson, Terminator 2 di James Cameron, Stargate di Roland Emmerich, Mars Attacks di Tim Burton, Starship Troopers di Paul Verhoeven, Contact di Robert Zemeckis, Gattaca di Andrew Niccol, The Faculty di Robert Rodriguez, Fuga da Los Angeles di John Carpenter, eXistenZ di David Cronenberg, Dark City di Alex Proyas, L’esercito delle 12 scimmie di Terry Gilliam – la grande produzione, quella in grado di investire centinaia di milioni di dollari in un singolo progetto, fa un triplo salto carpiato all’indietro per cercare nuove traiettorie, e nuove fasce di spettatori, nell’antico e nel favolistico. Categorie in cui rientra ovviamente il medievalismo tolkeniano, ma alle quali appartiene anche la letteratura di Rowling.

Lo capisce alla perfezione Chris Columbus, chiamato a tradurre in immagini il primo capitolo della saga, quello in cui l’undicenne Harry Potter, cresciuto come un paria dagli zii materni, scopre di colpo in bianco non solo di essere un mago, ma anche di ricoprire un ruolo a dir poco importante nel mondo magico – per qualità non “consce”, se così si può dire. Per comprendere appieno l’operazione condotta in porto da Columbus, i cui meriti vanno comunque distribuiti a tutti i singoli reparti e sono in ogni caso presenti nelle pagine del romanzo, è consigliabile prestare particolare attenzione ai primi quaranta minuti del film, quelli che vanno dall’incipit nel passato con l’arrivo del neonato Harry a Privet Drive, condotto lì dal guardiacaccia Rubeus Hagrid su richiesta di Albus Silente, fino alla prima apparizione del castello di Hogwarts, la scuola per maghi del Regno Unito. Nel passaggio dal mondo comune a quello magico Columbus compie uno scarto visivo sorprendente, in grado di lasciare a bocca aperta a distanza di due decenni – e con l’immaginario fantasy inflazionato e soprattutto impoverito da fin troppe riduzioni inessenziali di romanzi: si veda il disastro compiuto con l’adattamento de Le cronache di Narnia di C.S. Lewis o, peggio ancora, con La bussola d’oro, primo capitolo della trilogia Queste oscure materie di Phil Pullman. Il mondo babbano dominato dai grigi e dalle timbriche scure viene rovesciato completamente da un mondo magico fastoso, dominato da cromatismi vetusti e per questo ancor più iridescenti, tra candelabri e giochi di riflessi, il cielo blu in cui si lancia Harry per la prima lezione di volo su scopa o per la prima partita di Quidditch. In un certo qual modo a Columbus riesce la stessa malia che rese immortale Il mago di Oz di Victor Fleming, lì ancor più teorico nel certificare il mondo reale nel bianco e nero e quello magico nel technicolor.
È davvero un oggetto denso di mistero e stupore Harry Potter e la pietra filosofale, e stupeficium dopotutto è il nome di uno degli incantesimi principali imparati dagli studenti; riporta a un’epoca in cui Hollywood credeva ancora nella narrazione, e ancor più nella subcreazione – per rubare il termine a un saggio di J.R.R. Tolkien. Tra una fedeltà quasi pedissequa al testo originale e la volontà di trovare una propria collocazione nell’universo cinefilo, Columbus riesce a districarsi con notevole leggiadria. Il suo è un Harry Potter inevitabilmente infantile, ma non bambinesco: gioca con i desideri dei più piccoli ma sembra rivolgersi agli adulti sia per quel che concerne alcune tematiche – la memoria, la perdita degli affetti, il Male come cancrena che rode l’essere umano fino a portarlo alla consunzione, la necessità ultima di poter finire la vita – sia per certi sottili rimandi cinefili che vanno da Piramide di paura di Barry Levinson (scritto proprio da Columbus) all’Oliver Twist di David Lean, con Alec Guinness nei panni di Fagin.

In un’epoca in cui l’immateriale ha oramai preso il dominio, grazie anche all’evoluzione delle tecniche di computer grafica, Columbus dimostra che anche l’effetto speciale digitale può essere umano, carnale, credibile nella sua impossibilità concreta. Una qualità che lo pone nella stessa direttrice su cui si muove Jackson per la sua riduzione del capolavoro di Tolkien, anche se il risultato finale non può essere considerato completamente paritario. Se c’è qualcosa che manca nel primo capitolo della saga dedicata a Potter è una reale decisione programmatica. Quando i diritti del volume vengono acquistati dalla Heyday Films, nel 1997, è stato pubblicato solo il primo volume, mentre nel momento in cui il film entra in pre-produzione i lettori hanno già divorato i primi tre volumi e sono in attesa del quarto, che verrà pubblicato a ridosso dell’inizio effettivo delle riprese. Per questo forse a Kloves, lo sceneggiatore scelto per lavorare alla riduzione del testo, riesce facile rimanere il più possibile fedele, eccezion fatta per qualche dialogo modificato; eppure già si avverte, come una premonizione, la direzione che la saga prenderà di lì a qualche anno. Su Harry Potter e la pietra filosofale ricade in qualche modo la colpa di chi verrà dopo di lui, soprattutto a partire dal quarto e quinto capitolo della saga, come una nemesi storica al contrario. Al di là di questo rimane il godimento assoluto che si prova nello scoprire, insieme al protagonista, un mondo che è nascosto davanti ai nostri occhi. La magia di Hogwarts diventa dunque quella del cinema, in grado di rendere vero ciò che non è nemmeno visibile, di rendere materiale ciò che non è nemmeno tangibile, di rendere empatico ciò che appare agli occhi come una favoletta, o poco più. La duplice magia (del cinema e della narrazione) deflagra, grazie anche a un cast di sconosciuti bambini che ancora hanno il privilegio, in questo capitolo, di non doversi celare dietro filtri interpretativi, muovendosi al contrario con completa e schietta libertà. Columbus ha il diritto a sua volta di giocare, di dimostrarsi immaturo: un diritto su cui non potrà contare David Yates, il regista responsabile di tutti gli adattamenti dal quinto in poi, quando il discorso dovrà farsi più complesso. Troppo complesso per una produzione che ha solo trovato una gallina dalle uova d’oro.

Info
Harry Potter e la pietra filosofale, il trailer.

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