Rifkin’s Festival
di Woody Allen
Rifkin’s Festival è la cinquantesima regia cinematografica di Woody Allen, che qui ripercorre alcune delle strade poetiche a lui più congeniali, affidando il proprio alter ego a Wallace Shawn. Un’opera che non aggiunge granché alla carriera di Allen, ma che ne testimonia in ogni caso la vitalità intellettuale, e la verve (auto)ironica che lo contraddistingue.
Mort a pezzi
Mort è un anziano critico statunitense che vorrebbe scrivere un romanzo destinato a entrare nella storia della letteratura. Sposato con Sue, che gestisce un’agenzia di attori e registi, la segue a San Sebastian per il festival del cinema, anche perché teme che la moglie sia invaghita del regista del momento, di cui sta curando le pubbliche relazioni, il francese Philippe. [sinossi]
Chissà se Mort Rifkin, il protagonista di Rifkin’s Festival, ha mai incontrato a New York (la sua città) Harry Block, il romanziere in crisi creativa attorno a cui ventitré anni prima ruotava Harry a Pezzi; entrambi con un blocco creativo da affrontare – per Rifkin l’idea di pubblicare un romanzo serve a scrollarsi di dosso il peso di aver sempre scritto, in qualità di critico cinematografico, sul lavoro di altri –, entrambi con rapporti interpersonali abbastanza disastrati, entrambi in viaggio. Un viaggio non poi così impattante per Harry (la vicina Madison, nel New Jersey, una quarantina di chilometri dalla Grande Mela), e assai più lungo per Mort, che si ritrova addirittura in Europa, a San Sebastián sul Golfo di Biscaglia. Due viaggi però che preconizzano la necessità di ritornare a discutere di se stessi, del proprio vissuto: Harry deve recarsi nell’università in cui ha studiato, e che ora vuole rendere onore alla sua carriera, e Mort si aggira per gli spazi del festival cinematografico basco, lui che ha insegnato storia e critica del cinema per decenni. Inutile dire come in entrambi i casi le cose non andranno esattamente come previsto. Viene davvero naturale accostare Rifkin’s Festival a Harry a pezzi, anche per l’idea di decostruzione del personaggio attraverso il ricorso all’immaginario. L’uscita sistematica dalla realtà può essere, suggerisce Woody Allen, l’unico modo per affrontarla e cercare di non uscire dallo scontro troppo malconci (un’utopia anche quest’ultima). Rifkin’s Festival, presentato quasi un anno fa in anteprima mondiale al Festival di San Sebastián – e poteva forse essere altrimenti? – è la cinquantesima regia cinematografica di Woody Allen, e agli occhi di molti è apparso come il testamento autoriale di un regista che ha sempre fatto della prolificità uno dei suoi punti fermi, un ritmo negli ultimi tempi messo in crisi oltre che dal naturale invecchiamento da un movimento di pensiero che negli Stati Uniti tende a rappresentarlo come un orco, per via delle arcinote accuse mosse contro di lui dall’ex compagna Mia Farrow e da due dei suoi figli (non dovrebbe neanche essere il caso di sottolinearlo, ma meglio farlo: le due indagini svolte nei confronti di Allen sono state accantonate perché “il fatto non sussiste”). Rifkin’s Festival, forse anche per il ritardo con cui è arrivato sugli schermi italiani – dovuto ovviamente alla situazione pandemica –, è stato dunque letto come un’opera ultima, all’interno della quale il regista, attore e scrittore statunitense avrebbe condensato parti considerevoli della sua poetica e del suo sguardo sul mondo.
In realtà, ed è stato proprio lo stesso Allen a sottolinearlo, c’è già un nuovo progetto pronto nel quale lanciarsi, da girare a Parigi – città nella quale Mort Rifkin vagheggia di tornare a vivere, qualora la bella dottoressa spagnola Jo Rojas avesse intenzione di seguirlo in questa follia d’amore. Se negli aforismi alleniani è possibile scorgere in filigrana la natura intrinseca della filosofia di vita dell’autore allora bisogna prendere per buona l’idea che Allen non abbia intenzione di divenire immortale grazie alla sua arte, ma semplicemente evitando di morire. Se prima o poi, ed è tristemente inevitabile, ci si dovrà confrontare con un’ultima opera di Allen sarà solo ed esclusivamente perché lui non ci sarà più. Nient’altro. In questa prospettiva Rifkin’s Festival è “solamente” il cinquantesimo film scritto e diretto da Woody Allen, nient’altro che questo. Come oramai accade da quasi venti anni a questa parte (fa eccezione solo uno dei segmenti di cui si compone il capitolino To Rome with Love) lui non è più in scena, e dunque si affida a un alter ego che possa raffigurarne fisime e idiosincrasie: quell’alter ego in questo caso ha il volto e l’inflessione vocale di Wallace Shawn, grande attore nonché commediografo, già al lavoro con Allen in molteplici occasioni (Manhattan, Radio Days, Ombre e nebbia, La maledizione dello scorpione di giada, Melinda e Melinda) e decisamente a suo agio nel ragionare sulla rappresentazione di un io esistente nella realtà – vedere per credere La mia cena con André di Louis Malle. Mort è dunque Allen, ma un Allen raddoppiato dalla presenza in scena di Shawn, in un gioco di specchi che sarebbe stato forse la chiave d’accesso più interessante del film se si fosse deciso di perseguirlo fino alle estreme conseguenze.
Ma a ottantacinque anni compiuti Allen si “accontenta” della levità, e così Rifkin’s Festival passa amabilmente in rassegna la maggior parte dei nodi centrali della sua poetica: l’amore per New York, per quanto a distanza; l’ineluttabilità della crisi nel rapporto affettivo matrimoniale; il cinema come raddoppio dell’esperienza umana, e non come sua necessaria sublimazione; l’insensatezza intrinseca dell’esistenza; il jazz, ovviamente; la presa in giro dell’ambiente artistico, dominato dal narcisismo e da un intellettualismo mediocre; la psicoanalisi, che qui funge addirittura da cornice, visto che il racconto è fatto in prima persona da Rifkin mentre si rivolge al suo psicoanalista. L’amante del cinema di Allen troverà in Rifkin’s Festival un immediato rifugio, senza neanche che ci sia bisogno di tracciare chissà quali coordinate – Allen riprende i Paesi Baschi con la stessa identica idea di sguardo che si muoveva per la Catalogna di Vicky Cristina Barcelona, quasi che i posti siano interscambiabili: ecco dunque che il Paco interpretato da Sergi López appaia come una copia carbone un po’ meno macha e un po’ meno virulenta del Juan Antonio incarnato da Javier Bardem nel film del 2008. L’Allen di Rifkin’s Festival non è umbratile e tormentato come quello de La ruota delle meraviglie o Blue Jasmine (non a caso incentrati su personaggi femminili), e non ha neanche il candore nostalgico di Un giorno di pioggia a New York. È un Allen rassicurato, che accompagna il suo Mort per le strade di San Sebástian senza alcuna preoccupazione: dal medico ci si va d’altro canto solo perché è una donna di cui ci si è innamorati. Così anche i vari inserti onirici in cui Mort Rifkin rilegge la sua vita “rifacendo” classici del cinema da lui amati – in ordine sparso Quarto potere, 8½, Jules e Jim, Fino all’ultimo respiro, Un uomo, una donna, L’angelo sterminatore, Persona, e Il settimo sigillo – vanno interpretati assai più che in passato come una semplice boutade, il modo con cui un anziano regista dimostra di saper giocare non tanto con la Settima Arte, quanto con se stesso, con le proprie ossessioni, con il proprio oggetto di culto. E forse non è un caso che gli spezzoni più riusciti, e quindi divertenti, siano quelli in cui Allen fronteggia Ingmar Bergman (la scelta del dialogo comunque in svedese per Persona è davvero brillante), il regista che più di ogni altro ha saputo davvero comprendere, e in qualche modo far suo in passato – dal finale citazionista di Amore e guerra a un titolo profondamente bergmaniano come Hannah e le sue sorelle. Non sarà l’esito più brillante della carriera di Woody Allen, Rifkin’s Festival, ma è con gioia che si torna ad ammirare sul grande schermo l’acume e l'(auto)ironia di un intellettuale raffinato, sempre meno amato nella sua New York e “costretto” a emigrare, tornando in quella Vecchia Europa con la quale sembra ancora, di quando in quando, capirsi senza bisogno di ricorrere ai sottotitoli.
Info
Il trailer di Rifkin’s Festival.
- Genere: commedia
- Titolo originale: Rifkin's Festival
- Paese/Anno: Italia, Spagna, USA | 2020
- Regia: Woody Allen
- Sceneggiatura: Woody Allen
- Fotografia: Vittorio Storaro
- Montaggio: Alisa Lepselter
- Interpreti: Bobby Slayton, Cameron Hunter, Christoph Waltz, Damian Chapa, Douglas McGrath, Elena Anaya, Enrique Arce, Georgina Amorós, Gina Gershon, Iñigo Etxebeste, Ken Appledorn, Louis Garrel, Nathalie Poza, Richard Kind, Sergi López, Steve Guttenberg, Tammy Blanchard, Wallace Shawn
- Colonna sonora: Stephane Wrembel
- Produzione: Gravier Productions, Mediapro, Wildside
- Distribuzione: Vision Distribution
- Durata: 92'
- Data di uscita: 06/05/2021
