Venezia 2022 – Minuto per minuto
Venezia 2022 riapre le sale al 100% della capienza, ma dopo due anni di pandemia (tutt’altro che terminata, per di più) deve fare i conti con una guerra a poco più di mille chilometri di distanza, tutto questo mentre l’Italia è nel pieno della campagna elettorale. Riuscirà il cinema a catalizzare l’attenzione anche di chi non è addetto ai lavori? Lo scopriremo presto…
La Mostra del Cinema di Venezia 2022, settantanovesima edizione che si svolge a novant’anni esatti dalla prima (nell’estate del 1932), si confronta con un mondo sempre più in crisi, e lo fa con le sale di nuovo completamente riempibili e la consueta struttura: Concorso, Fuori Concorso, Orizzonti, Giornate degli Autori, Settimana Internazionale della Critica, Venezia Immersive. Proveremo come sempre a raccontarvi i pazzi giorni della Mostra, che quest’anno abbandona Boxol per le prenotazioni in sala e si affida a Vivaticket. Buona lettura!
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Sabato 10 settembre 2022
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20.21
Ed ecco il palmarès completo di Venezia 2022, con cui tradizionalmente chiudiamo il minuto.
Leone d’oro: All the Beauty and the Bloodshed di Laura Poitras
Gran Premio della Giuria: Saint Omer di Alice Diop
Leone d’argento per la miglior regia: Luca Guadagnino per Bones and All
Coppa Volpi per la miglior attrice: Cate Blanchett per Tár di Todd Field
Coppa Volpi per il miglior attore: Colin Farrell per Gli spiriti dell’isola di Martin McDonagh
Premio migliore sceneggiatura: Martin McDonagh per Gli spiriti dell’isola
Premio Speciale della Giuria: Gli orsi non esistono di Jafar Panahi
Premio Marcello Mastroianni: Taylor Russell per Bones and All di Luca Guadagnino
Premio Orizzonti per il miglior film: World War III di Houman Seyedi
Premio Orizzonti per la migliore regia: Tizza Covi, Rainer Frimmel per Vera
Premio Speciale della Giuria Orizzonti: Bread and Salt di Damian Kocur
Premio Orizzonti per la migliore attrice: Vera Gemma per Vera di Tizza Covi, Rainer Frimmel
Premio Orizzonti per il miglior attore: Mohsen Tanabandeh per World War III di Houman Seyedi
Premio Orizzonti per la miglior sceneggiatura: Fernando Guzzoni per Blanquita
Premio Orizzonti per il miglior cortometraggio: Snow in September di Lkhagvadulam Purev-Ochir
Premio Venezia Opera Prima Luigi De Laurentiis: Saint Omer di Alice Diop
Premio del pubblico Mymovies (solo per Orizzonti Extra): Nezouh di Soudade Kaadan
Premio Venezia Classici al miglior documentario sul cinema: Fragments of Paradise di KD Davison
Premio Venezia Classici al miglior restauro: La farfalla sul mirino di Seijun Suzuki
That’s All, Folks! All’anno prossimo. [r.m.]
19.11
Siamo usciti vivi, vegeti, e anche esaltati dalla visione di Copenhagen Cowboy di Nicolas Winding Refn. Vorremmo spendere qualche parola in più, ma siamo già al momento della premiazione. Al momento girano voci preoccupanti sul palmarès, ma devono essere confermate. Vediamo. [r.m.]
11.37
A proposito di visioni interminabili, ci avviciniamo a Copenhagen Cowboy di Nicolas Winding Refn (tra poco in sala) con un misto di curiosità e preoccupazione. Quali dei due istinti avrà la meglio? [r.m.]
11.32
Le visioni fluviali sembrano adatte a questa Mostra che al contrario dal concorso non ha assicurato grandi soddisfazioni. Così dopo le cinque ore The Kingdom Exodus ieri ci siamo lanciati nella visione delle quattro ore e mezza (o giù di lì) di Trenque Lauquen, diretto da Laura Citarella, tra le menti creative di quella Pampero Film a cui si devono anche i lavori di Mariano Llinás (che infatti anche qui si dà da fare, come assistente alla sceneggiatura e al montaggio). Viaggio misterico nel significato del racconto, il film di Citarella divaga con una grazia irresistibile, riuscendo a mettere in scena il desiderio dell’esperienza della vita come in pochi qui al Lido sono stati in grado di fare. Davvero un film splendido, che almeno ha avuto in sorte di prendere parte a un concorso – quello di Orizzonti – contrariamente a quanto accaduto a quasi tutte le visioni migliori della Mostra. [r.m.]
10.50
È invece il portoghese Lobo e Cão di Cláudia Varejão a ottenere il GdA Director’s Award, riconoscimento principale per le Giornate degli Autori. Il Premio del Pubblico lo ottiene Blue Jean di Georgia Oakley, il Label Europa Cinemas Dirty Difficult Dangerous di Wissam Charaf, e il BNL x Cinema del futuro The Maiden di Graham Fox. [r.m.]
10.44
Si avvicina la fine della Mostra e iniziano i premi. La Settimana Internazionale della Critica la vince Eismayer, esordio alla regia di David Wagner, ma fa incetta di premi Anhell69 del colombiano Theo Montoya, che ottiene una menzione, il premio al contributo tecnico, e anche il riconoscimento del Cinecircolo di Verona. Il pubblico assegna il premio a Margini di Niccolò Falsetti. Miglior cortometraggio è invece Puiet di Lorenzo Fabbro e Bronte Stahl: con lui nella sezione SIC@SIC premiati Albertine Where Are You? di Maria Guidone (migliore regia) e Reginetta di Federico Russotto per il contributo tecnico. [r.m.]
10.38
Per circa centocinquanta minuti Stonewalling di Huang Ji e Ryuji Otsuka pedina nella Cina di oggi il destino di una ragazza incinta che deve decidere il da farsi con il bambino in arrivo. I due autori scandagliano con passo lento affidato al racconto di una minuta quotidianità, fenomenologie e comportamenti di una Cina vistosamente moderna, tutta protesa al profitto e all’interesse economico, pressoché bilingue nel suo desiderio di stare al passo con un ampio orizzonte di globalizzazione, dove pure un bambino può tramutarsi in strumento per sanare un contenzioso. Presa in mezzo tra ambizioni personali, familismo e pressione sociale, la protagonista Lynn intraprende un percorso di presa di coscienza della propria individualità. Prezioso e affascinante. Alle Giornate degli Autori. [m.s.]
10.27
Rasenta ma non approda alla prestigiosa categoria dello scult il documentario di Oliver Stone Nuclear, ospitato fuori concorso alla mostra di Venezia. Tra lo spot pubblicitario e una puntata di super quark, il controverso regista americano perora la causa del nucleare come unica soluzione per combattere il cambiamento climatico attraverso un’energia pulita e, secondo i dati forniti dal regista onnisciente, sicura. Se l’argomento è interessante e alcune evidenze sono sotto gli occhi di tutti, il film sembra una reclame che inquadra tecnici che, felici, indicano schermi alternati da Stone che visita magnifiche centrali nucleari e dall’inizio alla fine straparla senza sosta, in fuori campo. Tutto il mondo dovrebbe unirsi per aprire centrali pulite in una grande catena di pace. Fuori tempo massimo per evidenti motivi bellici, forse al “film” andava rimessa mano. In sala pochi hanno resistito fino alla fine. [e.b.]
10.16
Ideato e realizzato nei mesi precedenti all’ultimo arresto e imprigionamento che Jafar Panahi ha subito come dissidente nel luglio scorso, No Bears è un ulteriore tassello del cinema clandestino al quale il regime iraniano ha costretto il regista ormai da anni. Per lo più ambientato in un remoto villaggio rurale dell’Iran ai confini con la Turchia, il film propone una struttura metacinematografica che tuttavia rifugge da riflessioni elitarie, estetizzanti o autoreferenziali. Si tratta di un cinema e metacinema, anzi, schiettamente popolare e politico, pronto a sporcarsi con il reale e con le contraddizioni del proprio Paese. In concorso. [m.s.]
10.01
Ventiquattro ore senza aggiornamenti. Chi ci segue avrà legittimamente pensato che avessimo sbancato il Casinò e ci fossimo dati alla fuga a Cuba. Lo avremmo preferito anche noi. E invece no, si è trattato solo di un venerdì denso di visioni e appuntamenti – tra cui torneremo tra poco – che ci hanno reso materialmente impossibile mettere mano al gestionale. Quindi ventiquattro ora di riposo senza poi troppo riposo, la sintesi in qualche modo perfetta di questa Mostra numero 79. [r.m.]
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Giovedì 8 settembre 2022
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19.01
Chi si aspettava un biopic sarà rimasto deluso: Blonde, il nuovo film di Andrew Dominik tratto dal volume omonimo di Joyce Carol Oates, non è un resoconto della vita di Marilyn Monroe ma un lungo viaggio incubale, un horror in piena regola. Con una straordinaria Ana de Armas, un’opera di grandissima oscurità e potenza. [e.b.]
17.31
Bloccato per circa vent’anni e riproposto in concorso al Festival di Cannes soltanto nel 1990, L’orecchio di Karel Kachyňa fu realizzato in realtà tra il 1969 e il 1970, in piena polemica con la rigidità oppressiva del regime comunista della coeva Cecoslovacchia. Adesso il film è ripresentato alla Mostra per Venezia Classici in versione restaurata. Stilisticamente raffinato, affidato a un’idea di racconto claustrofobico e angosciante, L’orecchio alterna pagine di astrazione audiovisiva a un serrato confronto psicologico a due in cui l’individuo appare costantemente schiacciato da un Potere invadente e onnipresente. L’Orecchio, meritevole di maiuscola, è ovunque, e ovunque ci ascolta. Da vedere. [m.s.]
16.15
Dopo il doppio premio raccolto in Orizzonti alla Mostra di Venezia del 2017 per Il dubbio – Un caso di coscienza, Vahid Jalilvand ritorna in laguna e stavolta in concorso. Sostenuto anche da intenzioni di polemica politico-sociale, Beyond the Wall propone un apprezzabile racconto di suspense e peripezia, sposando una struttura a mosaico in cui le verità sono svelate a poco a poco e in cui il discorso politico cerca vie mediate da un’idea personale di cinema di genere. Peccato che il gioco non regga alla lunga durata e che Jalilvand non resista alla tentazione di ricorrere allo stratagemma del twist finale. Nulla di male di per sé, non fosse che stavolta il twist rischia di vanificare effettivamente tutto il buono che il film ha seminato fino a quel momento. [m.s.]
09.20
Ispirandosi a un caso di cronaca nera francese che ha dato luogo a un processo penale nel 2016, Alice Diop dedica Saint-Omer, suo primo film di fiction, al tema dell’infanticidio, evocando dimensioni di tabù e confronti fra culture. Saint-Omer è un film di contraddizioni. Fittamente parlato e in buona parte costruito su ellissi e sottrazioni. Estremamente concreto e al contempo affidato a continue astrazioni. Popolato di figure reticenti e misteriose che si interrogano intorno ad assoluti culturali, affrontati proprio laddove la distanza culturale apre inquietanti istanze ed enigmi. Il grande mistero è la maternità, riletta da Diop come primario assoluto antropologico che mette insieme archetipi e modernità, Mito e Storia, da Medea alla cronaca di oggi. E in mezzo fa capolino pure il Medea di Pasolini. In concorso a Venezia 79. [m.s.]
09.01
Codiretto da enrico ghezzi e Alessandro Gagliardo, Gli ultimi giorni dell’umanità era atteso da lungo tempo anche da noi quinlaniani. D’altronde la gif sulla nostra homepage è dedicata proprio a questo film. E dunque eccolo qua questo catastrionfo ghezziano ispirato al testo omonimo di Karl Kraus: un crogiuolo di film citati – da Nostra Signora dei Turchi a La strategia del ragno – fino a una delle ossessioni ghezziane per eccellenza, vale a dire L’uomo dagli occhi a raggi X di Corman. Ma, vien da dire, il cinema o, meglio, la cinefilia non è centrale ne Gli ultimi giorni dell’umanità. Centrale è piuttosto l’immagine in senso più ampio che è sia cinematografica, sia privata (le riprese fatte ai figli nel corso degli anni), sia in qualche modo puramente documentaristico-oggettiva (come esplosioni di vulcani o la ripresa fissa all’angolo di una strada in America dove dei fiori testimoniano il ricordo di una strage). Centrale è dunque il discorso sulla memoria visiva che ghezzi contiene e che si srotola davanti ai nostri occhi, consegnandoci una perdita, che è prima di tutto relativa al passaggio del tempo (vediamo Aura Ghezzi sia da bambina che da grande, vediamo ghezzi invecchiato e, in maniera lievissima, si allude anche alla sua malattia), e in secondo luogo è legata alla scomparsa del mondo fisico, dell’umanità tutta; tema che forse nell’ultima parte è esplicitato con troppa insistenza attraverso le riprese dello spettacolo di Ronconi tratto sempre da Kraus. Dunque l’umanità muore, il mondo svanisce, la mente vacilla, la vista si fa più debole, ma le immagini restano. E resteranno. [a.a.]
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Mercoledì 7 settembre 2022
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18.33
Premiato con il Premio Cartier Glory to the Filmmaker, Walter Hill ha anche presentato un suo nuovo film qui al Lido. E meno male – viene da aggiungere – perché abbiamo potuto assistere a una piccola lezione di cinema, una lezione dal sapore cormaniano, che dovrebbe restare sempre un modello per chiunque si trovi costretto a fare cinema a basso costo. Dead for a Dollar – questo il titolo del film che arriva a sei anni di distanza dal precedente Nemesi – non cerca di nascondere la povertà produttiva, non cerca di fare belle immagini, cerca semplicemente di raccontare una storia e lo fa in maniera tremendamente efficace. Gli ingredienti? Una scrittura robusta, almeno un paio di grandi attori (Christoph Waltz e Willem Dafoe), la macchina da presa piazzata sempre nel punto giusto della scena, il ritmo che si costruisce con sapienza al montaggio. Tutto qua. Ma in quanti lo sanno fare e in quanti hanno dimostrato di saperlo fare in questa edizione del festival? L’unico altro nome che ci viene in mente è quello di Paul Schrader, anche lui alle prese con un piccolo budget per Master Gardener, ma capace nonostante tutto di mettere in piedi un gran film. [a.a.]
15.42
Alla vigilia della presentazione del film di Jafar Panahi alla Mostra del cinema, un altro film iraniano si segnala per coraggio e capacità di rompere i tabù. Si tratta di Jang-e jahani sevom (World War III) di Houman Seyedi, presentato in Orizzonti. Ambientato sul set di un film storico su nazismo e Olocausto, dove un pover’uomo viene preso per il ruolo di Hitler. Consegnati i dittatori (ci sarà un film anche su Saddam Hussein) alla storia e al cinema, quale sarà la terza guerra mondiale cui allude il titolo? Quella dei poveri e dei marginali contro uno stato autoritario come quello da cui proviene il regista? [g.r.]
15.07
Una storia d’amore che nasce da un incontro casuale e che passerà per momenti di gelosia e tensione. Si tratta di Kõne taevast (Call of God), il film che Kim Ki-duk stava realizzando in Kirghizistan e portato a termine dai suoi collaboratori dopo l’improvvisa dipartita del regista sudcoreano. Due direttive narrative guidano lo svolgimento della storia sentimentale dei protagonisti. Un romanzo d’amore, scritto dallo stesso partner maschile, e i sogni della donna che diventano reali come annunciato da una misteriosa voce telefonica. Film molto sgangherato, come del resto era il cinema ultimo del regista, non solo per le difficoltà di chiudere il progetto in sua assenza. [g.r.]
14.58
Penultimo titolo in concorso alla Settimana Internazionale della Critica, Anhell69 segna l’esordio alla regia di un lungometraggio per il trentenne colombiano Theo Montoya, che con grande spirito visionario ma anche attenzione alla verità documentaria mette in scena la propria generazione, spazzata via da una società retrograda e omofoba, e priva oramai di qualsivoglia illusione. Potente e dolorosa, un’opera prima da ricordare. [e.b.]
11.10
Opera prima del canadese Graham Foy, presentato alle Giornate degli Autori, The Maiden è un singolare teen movie sui legami affettivi, sull’elaborazione del lutto, sull’aldilà. Esordiente con le idee già molto chiare, Foy filma con stile personale corpi e luoghi, trasportandoci in una dimensione sospesa, come l’estate, come l’adolescenza. Autobiografico nell’essenza più che negli avvenimenti, il film è girato nei luoghi che Foy conosce bene, e si vede. Già in attesa del secondo film. [e.a.]
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Martedì 6 settembre 2022
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20.33
Presentato nella sezione documentari di Venezia Classici, Godard seul le Cinéma diretto da Cyril Leuthy è un film abbastanza tradizionale su un regista rivoluzionario, ma almeno si prende la briga di raccontare anche la seconda metà degli anni Settanta del cinema godardiano, anzi sarebbe meglio dire – per quel periodo – della televisione godardiana, della macchina per suoni e immagini che mise in campo in quel momento della sua carriera (si veda in tal senso il nostro pezzo su Numéro deux). Quindi non solo il Godard più celebrato, quello ovviamente della prima metà degli anni Sessanta, ma anche quello più nascosto e persino quello ancora poco compreso e poco analizzato che è il Godard delle Histoire(s) du Cinéma. Leuthy racconta tutto questo in maniera semplice e non banalizzante e dunque dispiace che manchi un altro capitolo importante del cinemondo godardiano, e cioè gli ultimi vent’anni della sua carriera e dunque la scoperta del digitale a partire da Éloge de l’amour (2001). Di questo non c’è traccia e non si capisce bene perché. Forse perché un film solo non basta anche solo per fare un bignami di Godard. [a.a.]
19.19
Il ritorno in concorso di Gianni Amelio, che qui al Lido trionfò con Così ridevano nel 1998, avviene con Il signore delle formiche, resoconto del caso giudiziario che vide protagonista sul finire degli anni Sessanta l’intellettuale Aldo Braibanti, accusato di plagio dai familiari del ragazzo maggiorenne che l’uomo aveva come compagno. Al di là del giudizio estetico a pesare sulla visione del film è la rilettura del tutto pregiudiziale e lontana dalla verità del contesto politico e culturale dell’epoca, a partire da una reprimenda ingiustificata contro il quotidiano L’Unità, tra i pochissimi quotidiani a dare invece ampio risalto al fatto. Una scelta incomprensibile e grave, che inghiotte tutto il resto del film. [r.m.]
16.48
In sala Grande è appena iniziata la proiezione ufficiale di The Eternal Daughter, il film con cui Joanna Hogg esordisce nella competizione veneziana e che si incastona bene nella poetica della regista britannica, visto che si torna a parlare di relazioni interpersonali, di rapporto con la vecchiaia, e di ville di campagna. Il problema è che la ghost-story che la cineasta porta avanti è così soffusa e labile (ma allo stesso tempo ampiamente prevedibile) da risultare a conti fatti evanescente. Restano le suggestioni ambientali, quella nebbiolina inglese che mette sempre inquietudini, e poco altro. [r.m.]
16.36
Invece il momento post-prandiale (termine roboante per una pizzetta mangiata appoggiato al cofano di una macchina) se l’è preso un grande vecchio del cinema europeo, l’ottantacinquenne danese Jørgen Leth che in coppia con Andreas Koefoed ha diretto Music for Black Pigeons, dedicato alla musica dello jazzista Jakob Bro e ai colleghi musicisti che lo hanno accompagnato e forgiato nel corso degli anni. Un lavoro forse anche un po’ compilativo ma non per questo privo di interesse, che soprattutto segna il ritorno al lungometraggio per Leth a diciannove anni di distanza da Le cinque variazioni, in quel caso co-firmato da Lars von Trier e sempre presentato al Lido. [r.m.]
16.24
Non possiamo dunque che rifugiarci una volta di più tra i classici, e così stamattina ci siamo dedicati alla visione su grande schermo della versione restaurata in digitale di The Black Cat, tra le prime regie statunitensi di Edgar G. Ulmer senza dubbio la più nota, grazie anche allo straordinario duello/duetto tra Boris Karloff e Bela Lugosi. Un film che, nella sua ora di durata, mostra in modo evidente tutte le lungaggini che nel corso del tempo hanno preso piede nella narrazione cinematografica. Le luci guardano ancora all’avanguardia, come anche alcune scelte stilistiche di Ulmer. Immortale, come il racconto di Edgar Allan Poe dal quale prende praticamente solo il titolo. [r.m.]
16.00
Ieri sera in Orizzonti Extra è stato presentato Amanda, opera prima di Carolina Cavalli con protagonista Benedetta Porcaroli, impegnata nel ruolo della ragazza del titolo, un po’ eccentrica un po’ misantropa un po’ viziata, e del suo tentativo di relazionarsi col mondo. Cavalli guarda all’indie a stelle e strisce, e confeziona un film innocuo, forse anche a tratti grazioso, per lo più dimenticabile. La selezione italiana di Orizzonti, per ora, non lascia di certo il segno. [r.m.]
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Lunedì 5 settembre 2022
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21.45
Un cast lussuoso, a partire dalla splendida protagonista Florence Pugh; un budget corposo; una messa in scena alquanto vivace e accurata. Non manca quasi niente a Don’t Worry Darling, opera seconda di (e con) Olivia Wilde, fuori concorso a Venezia. Ci sarebbe anche parecchio materiale narrativo, in ballo tra i colorati e spensierati anni Cinquanta e una distopia presto evidente, se il tutto non fosse una sorta di facile ma non troppo sagace aggiornamento del classico sci-fi La fabbrica delle mogli (The Stepford Wives, 1975) di Bryan Forbes, senza contare tutto quello che è venuto dopo, da Pleasantville a Matrix, per limitarsi a due. Godibile, ancor più per coloro che hanno evitato qualsiasi declinazione distopica, ma nulla più. [e.a.]
20.25
Una nota lieta del concorso, una conferma che casca a fagiolo, un altro tassello di una filmografia pregevole. Gli spiriti dell’isola, ovvero The Banshees of Inisherin, piazza una delle poche zampate del concorso, al momento la più convincente. Martin McDonagh ritrova Colin Farrell e Brendan Gleeson, coppia che così bene aveva funzionato nella sua opera prima In Bruges – La coscienza dell’assassino, e tra commedia e dramma tratteggia una singolare e umanissima parabola su un’amicizia in frantumi, su un’isola tanto splendida quanto isolata e su un piccolo conflitto che ne riflette uno molto più grande, altrettanto follemente irrisolvibile. Quasi sospesa nel tempo, tagliata fuori dal mondo esterno, Inisherin è una Brigadoon alla rovescia, destinata a una lenta agonia. Alquanto trattenuto rispetto agli sfavilli di Tre manifesti a Ebbing, Missouri e 7 psicopatici, McDonagh potrebbe vivere mesi di ricchi premi… [e.a.]
18.20
La disfatta del papa. Si può forse sintetizzare così il film di Gianfranco Rosi, In viaggio, presentato fuori concorso e incentrato per l’appunto sul peregrinare di Papa Francesco dal 2013 – anno della sua elezione al soglio pontificio – fino a quest’anno. Una disfatta non solo per l’età che avanza e per i problemi fisici ormai palesi, quanto per l’amara constatazione di parole lanciate al vento in un mondo che si avvia sempre più rapidamente verso la catastrofe. Rielaborando materiali di repertorio e pescando preferibilmente da momenti di sospensione e di attesa, Rosi lancia lungo il film una serie di indizi sull’isolamento e lo scoramento del pontefice che poi vengono chiaramente esplicitati in un finale all’insegna della estrema solitudine. Rispetto dunque a ciò che accadde con Notturno in cui, al di là delle polemiche e del giudizio negativo sul film, non emergeva mai un vero personaggio, ma si restava sempre sulla superficie, qui assistiamo perciò al ritratto di un uomo che si ritrova dolorosamente impotente di fronte alla brutalità dei suoi simili. [a.a]
17.57
In Concorso nella sezione Orizzonti l’affascinante Spre Nord (To the North) di Mihai Mincan, ennesimo titolo che dimostra il sempre ottimo stato di salute del cinema rumeno. Ispirato a una storia vera, accaduta nel 1996, il film si svolge pressoché totalmente su un transatlantico di proprietà taiwanese, con marinai filippini, su cui salgono in Spagna due emigranti clandestini europei (un bulgaro e un rumeno), desiderosi di approdare negli Stati Uniti e rifarsi una vita. Verranno scoperti dal nostromo, un uomo buono ma che deve tenere segreta la faccenda al capitano taiwanese. Il risultato sarà un gioco al massacro innanzitutto psicologico, con sequenze al cardiopalma anche quando sono soltanto fatte di sguardi. Dispiace constatare che, come per molte altre proiezioni ufficiali, anche in questo caso la sala Darsena fosse semivuota, specie nella parte anteriore (cioè la parte che la Delegazione vede come primo colpo d’occhio, essendo ospitata a centro sala), nonostante non risultassero posti prenotabili proprio nelle file davanti. Le falle del sistema di prenotazione vanno molto oltre a quelle legate ai tempi di attesa, insomma. [e.b.]
17.46
Nello stato di Israele la leva è obbligatoria: 3 anni per gli uomini, 2 per le donne. Lo stato di Israele è una gigantesca macchina di guerra, uno stato-esercito, uno stato militare. È con estremo coraggio che il regista Guy Davidi (nato vicino a Tel Aviv nel 1978) racconta le storie di alcuni militari suicidi in Innocence, in Concorso nella sezione Orizzonti di Venezia, un documentario che mostra non solo la disperazione dei giovani attraverso le loro lettere e diari, ma anche quanto la coercizione abbia bisogno di una propaganda continua, permanente, che inizia dalla scuola elementare, dove ai bambini viene insegnato l’amore per i soldati e che l’esercito è la salvezza del Paese. Coraggio estremo, quello del regista, che realizza un’opera imperfetta ma potente, un atto di accusa contro al Paese in cui è nato e in cui vive. Un documentario strutturato sui testi di giovani che non hanno retto la vita militare, o che l’hanno rifiutata ideologicamente, e si sono tolti la vita. Storie di cui difficilmente si parla, una faccia della polveriera mediorientale vergognosamente rimossa e non affrontata. [e.b.]
17.18
In una sala Giardino in larga parte vuota, ma che risultava senza più posti a disposizione per il programma di prenotazione (davvero un disastro sotto questo punto di vista quest’anno), è iniziata da pochi minuti la proiezione ufficiale di Kapag wala nang mga alon (When the Waves Are Gone), il nuovo film di Lav Diaz, che torna al Lido a due anni di distanza dall’ottimo Genus Pan, all’epoca presentato in Orizzonti. Termina invece addirittura Fuori Concorso questo lavoro di poco più di tre ore, e davvero viene da chiedersi quale sia stata la ratio che ha guidato le scelte in fase di selezione e collocazione dei film: Lav Diaz firma quello che con ogni probabilità è il suo miglior film da anni a questa parte – il che è tutto dire, vista la qualità della sua straordinaria filmografia – e avrebbe meritato di concorrere per il Leone d’Oro, esattamente come Pearl di Ti West, The Kiev Trial di Loznitsa e Master Garderner di Paul Schrader (magari il premio alla carriera lo si poteva assegnare tra dodici mesi). Il Cinema con la c maiuscola, eccezion fatta per pochissime eccezioni, si trova fuori dal concorso, o nel fuori concorso o nelle sezioni collaterali e indipendenti. [r.m.]
16.56
Sempre per via degli orari abbastanza infami di questa Mostra (sulla cui pessima organizzazione ci sarebbe assai da dire, ma per ora soprassediamo) stiamo scrivendo poco dei film della Settimana Internazionale della Critica e delle Giornate degli Autori, che invece stanno mettendo in fila entrambe una selezione di tutto rispetto. Molto interessante ad esempio oggi Skin Deep del tedesco Alex Schaad, esordio ospitato in concorso dalla SIC, che ragiona in modo del tutto peculiare e personale sul tema dell’identità – facendolo assai meglio rispetto a Crialese. Prima del film di Schaad, nel tradizionale spazio dei corti di SIC@SIC, si è visto il folle Reginetta di Federico Russotto, sorta di body-horror in odor di Miss Italia girato come saggio di diploma al CSC. Russotto dimostra uno sguardo non consono all’interno della produzione nazionale, con la speranza che sappia ripetersi – e magari anche estremizzarsi – in futuro. [r.m.]
16.38
Pare brutto ripetersi, ma per fortuna che ci sono i “classici”! Oggi per esempio il pubblico della Sala Corinto – nuova realtà che sorge nell’area del pattinatoio, a ridosso del PalaBiennale – potrà godere sul grande schermo di quella meraviglia assoluta che è Koroshi no rakuin, cioè a dire La farfalla sul mirino, forse il capolavoro dell’eretico Seijun Suzuki. A proposito di Suzuki, ci è parso di intravederne la figura tra le ombre del nuovo meraviglioso film di Lav Diaz di cui però non si può dire di più per ora. Potere dell’embargo. [r.m.]
16.30
La scelta di creare gli embarghi per la stampa, oggettivamente messi in atto solo per impedire che i film arrivino alla proiezione ufficiale già accompagnati coram populo dal chiacchiericcio degli accreditati, rende più difficoltoso anche l’aggiornamento del minuto per minuto. Così arriviamo solo ora a scrivere due righe su L’immensità, il nuovo film di Emanuele Crialese. Una storia almeno in parte autobiografica ambientata nella Roma dei primi anni Settanta che parla di identità, uno dei punti cardine dell’attualità. Peccato che l’interessante spunto di partenza non giunga a una reale definizione drammaturgica, depotenziando anche il trauma familiare e l’impatto. Crialese dirige due belle sequenze corali, ma per il resto non sembra saper gestire alla meglio il racconto. [r.m.]
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Domenica 4 settembre 2022
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21.20
Più facilmente digeribile di Madre! o di altre divisive opere di Darren Aronofsky, The Whale si sviluppa in un unico spazio, in un appartamento da sitcom con minuscolo e invalicabile sfogo esterno. Entrate e uscite di scena dalla porta d’ingresso, dimensione famigliare\disfunzionale con tanto di amica come figura ricorrente e di ragazzo guest star. Senza le risate a comando, ma con le lacrime insistentemente cercate. In concorso. In ogni caso, è bello rivedere Brendan Fraser. [e.a.]
20.43
Torna alle dinamiche di quartiere, di una piccola comunità che vive in un circondario Koji Fukada, nel suo film Love Life, in concorso a Venezia 79. Come il suo collega Koreeda, il fulcro del film si gioca su una tempesta della vita scegliendo la metafora del terremoto. Si tratta della morte accidentale di un bambino di 8 anni, evento reso con una magistrale scelta di fuori campo. La coppia di genitori, solo la madre è quella biologica, andrà incontro a una crisi. Ancora una volta Fukada guarda a Rohmer ma in un sincretismo con una profonda sensibilità nipponica dove il bambino campione del gioco Othello è un epigono del Maestro di Go di Kawabata. [g.r.]
19.35
Con la solita precisione chirurgica, Sergei Loznitsa scava tra gli archivi per metterci davanti al passato, ma anche al nostro presente e futuro – Kiev era e torna a essere il centro del mondo, dell’orrore e forse della giustizia. La Storia che si dispiega di fronte ai nostri occhi, ineluttabile, crudele ma persino banale: The Kiev Trial si lega ovviamente per metodologia e senso a tutte le altre opere di Loznitsa (si veda, ad esempio, The Trial), ma insieme al recente The Natural History of Destruction rimarca l’urgenza di questo sguardo lucido, onesto, profondissimo. [e.a.]
10.32
Leone d’Oro alla carriera di questa 79esima edizione della Mostra, Paul Schrader ha presentato fuori concorso Master Gardener. Nuova, arguta declinazione sul tema della possibilità di una redenzione, il film è la storia di un “maestro giardiniere” (Joel Edgerton) dal passato a dir poco burrascoso, che si ritrova a introdurre al proprio mestiere una ragazza per metà afroamericana (Quintessa Swindell), pronipote della ricca proprietaria del terreno (Sigourney Weaver) da lui accuratamente coltivato. Tra allieva e maestro nascerà l’amore, ma il passato di militanza neonazista del giardiniere renderà la cosa complessa. Strutturando un abile connubio tra thriller e love story, Schrader firma uno script denso di raffinate metafore, a partire da quella che assimila la gestione del giardino al controllo del proprio destino. Corroborato dall’ottima interpretazione di Edgerton, il film trascina gradualmente lo spettatore nei tormenti del protagonista, dosando sottili tensioni di potere nei dialoghi tra i personaggi, dramma di periferia a forti tinte, poliziesco e, soprattutto, ampie spennellate di romanticismo. E se la domanda “può un autore declinare lo stesso tema lungo tutta la sua filmografia” può sorgere spontanea nella mente, bisognerà pur ammettere, dopo la visione del film, che la risposta nel caso di Schrader, è, ancora una volta affermativa. [d.p.]
10.00
In concorso al festival, Argentina, 1985 di Santiago Mitre racconta la storia vera del Pubblico Ministero Julio Strassera, che si ritrovò a guidare l’accusa nel processo contro i responsabili della dittatura argentina. Con protagonista il mattatore Ricardo Darin, il film procede alternando le dinamiche familiari con quelle lavorative di Strassera, intrecciando gli eventi privati e pubblici, mettendo in luce soprattutto le storture e fragilità della giovane democrazia e lasciando un po’ troppo da parte, almeno fino al crescendo finale, le atrocità della dittatura. Innervato di humour, Argentina, 1985 sembra fare di tutto per abbassare i toni drammatici della sua vicenda, per garantire allo spettatore una visione non troppo perturbante, ma anche un sufficiente grado di indignazione. È un buon prodotto, certo, ed è un prodotto Amazon. Dal regista di Paulina e Il presidente era lecito aspettarsi qualcosa di più. [d.p.]
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Sabato 3 settembre 2022
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18.30
Dopo Bones and All di Guadagnino, Monica di Andrea Pallaoro è il secondo titolo italiano in concorso a essere presentato qui al festival. E i due film hanno tra l’altro in comune una curiosa caratteristica, quella di essere entrambi parlati in lingua inglese e di essere girati negli Stati Uniti. Coincidenza che in parte deriva dalla storia personale dei due registi, ma che forse è sintomatica di un tentativo di travestirsi da film americano nella speranza di avere un respiro – e un pubblico – più internazionale. Caratteristica ben nota al nostro cinema commerciale di un tempo e che invece ultimamente sembra essere più appannaggio del cosiddetto cinema autoriale (si pensi solo – per fare un altro esempio – a un regista come Minervini). Nel caso specifico Pallaoro guarda all’indie americano e mette in campo una notevole cura visiva, apprezzabile soprattutto nella prima metà del film laddove ragiona sull’oggettivazione del corpo della protagonista, interpretata da Trace Lysette. D’altronde va a finire che la Monica del titolo pare essere più corpo che personaggio e infatti il film vacilla quando comincia a verbalizzare i vari traumi familiari con confessioni poco convincenti. Ma, al di là di tutto, questo secondo capitolo di una trilogia sulle “dinamiche dell’abbandono e delle sue conseguenze” (sono le parole del regista) ci sembra che segni un passo in avanti rispetto al primo capitolo, vale a dire Hannah, che venne presentato a Venezia nel 2017 e valse a Charlotte Rampling la Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile. Ovviamente, anche per Trace Lysette si parla già di premio, anche se l’interpretazione di Cate Blanchett in Tár ci pare decisamente superiore. [a.a.]
17.48
Nel vedere Pour la France di Rachid Hami nel concorso di Orizzonti e il pessimo Athena di Romain Gavras prendere parte alla corsa al Leone d’Oro della competizione principale viene da porsi più di un quesito: non per il film di Hami in senso stretto, perché si tratta di un’opera degna e dolorosa, magari poco adatta a un concorso che dovrebbe privilegiare il nuovo e chi osa (tutte e due categorie non applicabili a questa storia di ricerca di giustizia e di assoluzione), ma per l’inappropriata presenza in concorso di Gavras. A questo punto sarebbe stato ben più logico concedere a Pour la France lo spazio più rilevante della Mostra. Scelte misteriose, che lasciano molti dubbi e fanno pensare male: sarà mica che a spostare gli equilibri è stato il marchio di Netflix sul film di Gavras? [r.m.]
17.35
Anche se in ordine sparso, lasciandoci ancora una volta orfani delle sempre più rare retrospettive (tragico errore del sistema festivaliero italiano, non solo della Mostra), la sezione Venezia Classici offre gustosissimi recuperi. Ad esempio, il vivace affresco storico I giocatori di scacchi (Shatranj Ke Khilari, 1977), davvero singolare col suo doppio binario narrativo. Monumento del cinema indiano e mondiale, Satyajit Ray guarda senza alcuna preferenza al colonialismo britannico e al sistema feudale indiano, ripercorrendo con leggiadra ironia uno degli snodi della storia dell’India e della dominazione inglese. Spassosa la dipendenza da scacchiera dei due protagonisti, così comicamente e tragicamente distaccati da tutto ciò che li circonda e accade. [e.a.]
16.02
In Venezia Classici oggi è stato presentato Canyon Passage, il primo dei western diretti da Jacques Tourneur. Un’occasione per scoprire un’opera libera come il suo autore, ancora troppo ignoto al popolo cinefilo – almeno quello giovane – nonostante l’onnicomprensiva retrospettiva locarnense di pochi anni fa. Il digitale però, va detto, si presta poco a un’opera simile. [r.m.]
15.07
Frutto di un lungo lavoro di ricerca svolto con lo sceneggiatore Maurizio Braucci, che già aveva dato luogo nel 2016 al documentario Searching for Padre Pio (stranamente assente dalla filmografia dell’autore su imdb.com, ma visibile al momento su youtube), Padre Pio trova ora la luce del grande schermo in occasione della presentazione alle Giornate degli Autori di Venezia 2022. Ma non è un film biografico Padre Pio, bensì una riflessione storica, fisica, spirituale sulla sofferenza umana, personale e collettiva, religiosa e politica. Interamente costruito sul montaggio alternato, il film intervalla infatti per tutta la sua durata i tormenti del frate con quelli del popolo di San Giovanni Rotondo per dar vita, nel finale alla sua potente metafora politica. Gli si perdona dunque lo scarso affiatamento del cast, che non raggiunge l’auspicata coralità, anche perché lo scopo di Ferrara è qui riportare alla luce una pagina dimenticata della nostra Storia: l’eccidio di San Giovanni Rotondo, avvenuto il 14 ottobre 1920. [d.p.]
13.47
A proposito di titoli deboli, sarebbe quasi più decoroso glissare su Athena, il nuovo film di Romain Gavras: un’opera indifendibile tanto politicamente quanto esteticamente, per di più dominato da una scrittura sciatta, che pensa che l’enfasi e i droni siano i modi più adatti per rappresentare lo scontro sociale. L’inquadratura finale, poi, lascia davvero basiti. [r.m.]
13.39
Come spesso capita, è arrivato il momento di tornare a ieri sera, e ai film che ieri mattina erano ancora “embargati”. Luca Guadagnino con Bones and All era sicuramente uno dei titoli più attesi: un onesto teen-horror, ben diretto ma che si muove in direzioni decisamente prevedibili. Dispiace che il road movie non sia utilizzato in tutte le sue potenzialità. Resta comunque uno dei migliori film presentati in quello che per ora è il concorso più debole degli ultimi tre decenni. [r.m.]
13.00
È arrivato il primo sabato della Mostra, e occorre fare qualche bilancio, seppur parziale. L’affluenza al Lido, per esempio: la massa umana che ci si aspettava non pare esserci – forse arriverà per la seconda settimana – e questo porta al fatto che molte proiezioni partono con posti vuoti in sala. In questa situazione è davvero un peccato che si sia deciso di eliminare le rush line, anche perché ci sono proiezioni che risultano complete ma tali non sono. [r.m.]
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Venerdì 2 settembre 2022
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17.50
Targato rigorosamente Netflix, Bardo, o falsa crónica de unas cuantas verdades conferma due cose che già sapevamo: da un lato, l’innegabile talento e la notevole perizia tecnico-artistica di Alejandro Iñárritu; dall’altra, l’ambizione autoriale priva di confini che spesso (ma qui dipende molto da come la si vuol vedere…) finisce per cannibalizzare il film, depotenziandolo, slabbrandolo. Forse, in generale, si dovrebbe trovare una macchina del tempo per poter tornare indietro e impedire a Fellini di girare 8½. Non per il film, sia chiaro, ma per tutti i successivi tentativi di rifarlo, imitarlo, superarlo. [e.a.]
16.45
Una delle rare incursioni del documentarista Frederick Wiseman nella fiction, operazione peraltro molto simile a La dernière lettre, Un couple in concorso a Venezia, mette in scena le lettere di Sofia rivolte al marito Leo Tolstoj. Un paesaggio primaverile, idilliaco, da Monet, da pittura impressionista, fa da sfondo a parole spesso di risentimento e di sofferenza. Per Wiseman, da sempre interessato alle arti performative, si tratta di giocare sullo straniamento, dei luoghi e della recitazione affidata alla bravissima Nathalie Boutefeu, che lavora in quarta parete evitando quasi sempre quegli sguardi in camera proibiti nel cinema documentario di Wiseman. Salvo qualche eccezione sapientemente bilanciata dal cineasta. [g.r.]
15.12
Alla SIC è la giornata del film italiano in concorso. Margini segna l’esordio per il grossetano Niccolò Falsetti, e racconta una storia che attinge molto all’autobiografismo, tra desideri di evasione dalla periferia e sogni di successi nel mondo del punk. Un’opera con qualche fragilità ma estremamente sincera, dominata da una malinconia persistente e con una colonna sonora che mette in fila alcune delle migliori band italiane di punk e hardcore. [r.m.]
13.25
Sempre attratti dal mondo circense, sempre attratti da una dimensione di decadenza, i registi Rainer Frimmel e Tizza Covi trovano in Vera, personaggio che dà il titolo al loro ultimo film presentato a Orizzonti, il paradigma della loro poetica. Vera Gemma, già il nome dice tutto, è la figlia di Giuliano Gemma, icona del cinema italiano. Nel raccontare la sua vita, nella sua straordinaria capacità di mettersi a nudo, nella sua incredibile presenza scenica, nella sua spigolosa fisicità, troviamo il divario tra i ricchi e i poveri, tra i manager rampanti e ipocriti che hanno in mano il mondo dello spettacolo e il mondo dei borgatari romani ancora uguale a come lo raccontava Pasolini. E la decadenza assoluta è quella del cinema, che non è più quella fabbrica dei sogni dell’epoca di Giuliano Gemma. Dalla mediocrità del cinema di serie A non ci si può che rifugiare in un cinema come quello di Frimmel e Covi, dove è impossibile capire dove finisca la realtà e dove finisca la finzione. [g.r.]
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Giovedì 1 settembre 2022
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19.33
Tra i primi titoli del concorso veneziano Tár dell’americano Todd Field (In the Bedroom, Little Children) è un film decisamente interessante, costruito intorno a una strabordante Cate Blanchett nei panni di una direttrice d’orchestra stimata, venerata, potentissima e crudele. Costruito minuziosamente come dramma di personaggi dalle venature thriller cui contribuisce qualche dissonante elemento sonoro-rumoristico (che potrebbe richiamare persino, a tratti, il Memoria di Apichatpong Weerasethakul, senza però arrivare a quegli estremi), Tár regge abilmente le sue due ore e mezza di durata, dilatando e velocizzando tempi e ritmi – così come, ci viene spiegato, deve fare un buon direttore d’orchestra – cedendo qualcosa solo nel finale dove il raffinatissimo equilibrio di toni viene necessariamente forzato per arrivare a una qualche conclusione. Comunque, oltre a una sceneggiatura da tenere in considerazione, è inevitabile pensare da subito alla Blanchett – che per l’occasione ha imparato sia il tedesco che a suonare il piano – come naturale candidata alla Coppi Volpi. [a.a.]
18.55
Ci si innamora facilmente di Blue Jean (Giornate degli Autori), della protagonista Rosy McEwen, del talento della sceneggiatrice e regista Georgia Oakley, alla sua opera prima. In un 1988 profondamente thatcheriano, il governo mette sullo stesso piano lesbiche, gay e pedofili: in un simile contesto, Jean è costretta a vivere una doppia vita, tra la dimensione privatissima e il suo inscalfibile lavoro da docente. Oakley trova una sua cifra stilistica per immergerci negli anni Ottanta, lontana da soluzioni scontate, e tratteggia un ritratto personale, sociale e politico molto preciso. Illuminante la messa in scena del netball, una sorta di pallacanestro femminile senza contatto e con ben poco agonismo. In quella rigorosa distanza tra i corpi c’è tutta l’ipocrisia che stiamo cercando di spazzare via… [e.a.]
17.30
Non ci si è dimenticati ovviamente di Venezia Classici, la sezione dedicata ai restauri in digitale – ahinoi – di film più o meno noti e più o meno storici. Molti appassionati del cinema di Yasujirō Ozu potrebbero non avere molta dimestichezza con Kaze no naka no mendori, cioè a dire Una gallina nel vento. Sovente considerata un’opera minore, questa rappresentazione del disastro che lasciò il conflitto mondiale nel cuore, nelle famiglie, e nella società giapponese mostra in realtà moltissimi spunti d’interesse, ed è un concreto tentativo di Ozu di raccontare una nazione sull’orlo del burrone, in bilico tra l’incedere del moderno e il desiderio della tradizione. [r.m.]
17.19
Tra i film presentati in Biennale College si è visto oggi Banu, esordio alla regia di un lungometraggio per la ventottenne azera Tahmina Rafaella: una storia che parla di una società patriarcale e marcatamente maschilista, ma anche dell’animo belligerante e della voglia di dominio. Interessante, nonostante una regia ancora acerba e una sceneggiatura in gran parte prevedibile. [r.m.]
16.22
In Orizzonti è stato presentato Aru otoko, vale a dire A Man (questo il titolo internazionale) con cui il quarantacinquenne Kei Ishikawa a un anno di distanza dal fantascientifico Arc. Lì si parlava di immortalità del corpo, qui si affronta il tema dell’identità, e di ciò che comporta. Una trama che spazia dal dramma all’indagine giudiziaria per scoprire la verità su un uomo, che dopo essere morto schiacciato da un albero – era un boscaiolo, e viveva in un paesino con moglie e due figli – si scopre non essere chi affermava. Ishikawa alterna momenti ispirati a passaggi meno interessanti, ma ha la capacità di cercare di ragionare sull’identità stessa del Giappone, e sulle sue storture, dal razzismo al classismo fino alla pena di morte. [r.m.]
13.00
“Ci vedremo ancora tra 25 anni”: la celebre frase di Twin Peaks pronunciata da Laura Palmer nella Loggia Nera, sembra calzare anche per Lars von Trier che, a distanza di un quarto di secolo dal capitolo precedente, chiude con The Kingdom Exodus la serie televisiva aperta nel 1994 e proseguita nel 1997. L’ospedale di Copenhagen, Riget (Il Regno), ha continuato la sua vita e le sue opere in tutto questo tempo nonostante uno sciroccato regista danese, von Trier ovviamente, lo abbia gettato in pasto al pubblico di tutto il mondo con una storia soprannaturale e screditante. Quella che Karen, la protagonista di Exodus, sta guardando in tv chiosando: “Ma come si può fare una boiata del genere?”. Eppure la sonnambula Karen, dopo la visione, di notte si recherà in trance proprio alla porta del Regno dove qualcosa di misterioso e minaccioso sta avvenendo. Prendendo simbolicamente il posto della defunta signora Drusse, la donna entrerà nel “tempio della scienza”, dove si annida nientemeno che il Diavolo, per cercare di evitare che gli spiriti della luce e quelli delle tenebre si confondano portando alla devastazione. Ci riuscirà? Punto finale di un labirintico percorso nei meandri della fede, delle false credenze e soprattutto della creazione del Male, The Kingdom Exodus è un viaggio furibondo, grottesco, intellettuale, in cui lo spettatore non può che obbedire alla volontà del Demiurgo assoluto, costruttore di dubbi e verità, menzogne e certezze. Ovvero il regista stesso, che ci chiede ancora una volta, per 5 ore, di essere pronti “ad accettare il bene con il male”. Imperdibile. [e.b.]
12.50
Film d’apertura delle Giornate degli Autori 2022, Dirty Difficult Dangerous del regista franco-libanese Wissam Charaf narra la storia d’amore tra due emarginati nella Beirut contemporanea: lei, immigrata etiope, lavora come domestica e badante per una famiglia altoborghese, lui, invece, è un rifugiato siriano che si guadagna da vivere raccogliendo e poi rivendendo metalli. Mescolando dramma sull’immigrazione, commedia indie, fiaba nera e fantascienza superomistica, Dirty Difficult Dangerous seduce lo sguardo grazie ai due giovani interpreti e a una fotografia elegante e curata, ma lascia la realtà del Libano odierno un po’ troppo sullo sfondo. [d.p.]
09.21
La giornata di oggi, dopo l’ennesima sequela di contumelie lanciata contro il sistema di prenotazione in sala, è iniziata venti minuti fa per la maggior parte degli accrediti con Bardo, il nuovo film di Alejandro González Iñárritu presentato in concorso qui al Lido. Nel frattempo ieri si è inaugurata anche la diciannovesima edizione delle Giornate degli Autori, la terza con Gaia Furrer come direttrice artistica: ad aprire la selezione Dirty Difficult Dangerous del regista franco-libanese Wissam Charaf. Oggi pomeriggio invece tocca alla prima proiezione della Settimana Internazionale della Critica. Perché non di sola selezione ufficiale vive la Mostra. [r.m.]
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Mercoledì 31 agosto 2022
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21.55
Invece si possono spendere delle parole su White Noise, la produzione Netflix scelta come film d’apertura della Mostra, dove viene presentata in concorso. “Ridurre” per lo schermo (che sarà grande solo qui al Lido o da poche altre parti) il capolavoro letterario di Don DeLillo, punto nevralgico del post-moderno statunitense, era una sfida ad altissimo rischio fallimento. Noah Baumbach riesce invece nell’impresa di seguire la trama rispettando però l’etica dello scrittore, e la sua visione del mondo. Certo, lo stile non potrebbe essere più differente, ma il cinema serve anche a questo. Eccellente il cast, a partire ovviamente da Adam Driver e Greta Gerwig, suggestive alcune sequenze – destinate forse a diventare di culto -, e bellissima New Body Rhumba, la canzone in odor di Talking Heads che gli LCD Soundsystem di James Murphy hanno composto e suonato per il film. [r.m.]
21.47
Giornata di difficili aggiornamenti un po’ perché gli embarghi costringono ad attendere l’orario di inizio delle proiezioni ufficiali per parlarne, un po’ perché l’attenzione è stata catalizzata dalle 5 ore di The Kingdom Exodus, terzo capitolo della saga creata da Lars Von Trier; anche in questo caso non si può dire di più sull’operazione, in attesa della fine dell’embargo, però va segnalato come la proiezione sia iniziata con mezz’ora di ritardo per le difficoltà di lettura dei biglietti da parte delle maschere all’ingresso. La Mostra insomma sta facendo un po’ a pugni con la tecnologia in questi primi giorni. [r.m.]
11.17
Ed eccoci ai primi film, con la proiezione per gli accreditati di White Noise di Noah Baumbach, tratto da DeLillo. Tocca però aspettare la fine dell’embargo per sbilanciarsi in riflessioni varie. La vera attesa della giornata, a parte l’ultima fluviale fatica di Lars von Trier, è per quello che accadrà quando si riaprirà la corsa ai biglietti. Interessante, nel frattempo, confrontare le dichiarazioni sorprendentemente contrastanti di Roberto Cicutto (“Gli accreditati hanno ragione”, qui) e Alberto Barbera (“Basterebbe che la gente smettesse di cercare di collegarsi contemporaneamente alle 7 del mattino e si distribuisse lungo la giornata”, qui). Vedremo domani mattina. Intanto, “nessun sistema è in grado di gestire la complessità di una biglietteria di un festival” è già scolpita nella roccia. Buon festival. [e.a.]
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Martedì 30 agosto 2022
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09.23
Terminata l’agonia dei biglietti si può pensare alla Mostra, e in attesa di prendere il treno per raggiungere fisicamente il Lido la mente corre alla proiezione in pre-apertura di stasera, il drammone strappalacrime Stella Dallas che Henry King diresse nel 1925. Qui alla Mostra viene presentato, con tanto di accompagnamento dal vivo, in una serata a inviti (a cui non siamo invitati), in una copia restaurata in dcp, mentre sei anni fa il pubblico lo poté vedere al Cinema Ritrovato di Bologna in una proiezione con la lanterna a carbone. [r.m.]
08.45
Può una Mostra del Cinema iniziare giorni prima della Mostra stessa? Al di là del paradosso temporale che potrebbe far felice Christopher Nolan non si va tanto lontani dal vero, visto che nonostante la prima proiezione stampa sia prevista per domani mattina gli accreditati già da domenica hanno dovuto sperimentare la sveglia antelucana per provare – con scarso successo il primo giorno, visti i disservizi – a prenotare un posto in sala. Oggi c’è stato il secondo round (questa pratica si svolge ogni 48 ore). Così, dopo due anni di bonarie prese in giro dei problemi tecnici di Boxol (indimenticabile la scherma che recitava “Ooops… Questa è una pagina timida che non prevedeva di essere vista!”) si è passati a maledire Vivaticket, che da quest’anno fornisce l’assistenza tecnica necessaria alla Mostra. La speranza è che il sistema progressivamente possa migliorare. In attesa di questo l’intera pattuglia degli accreditati è riuscita a stressarsi tre giorni prima del primo film. [r.m.]