Venezia 2017 – Minuto per minuto
Dal primo all’ultimo giorno della Mostra di Venezia 2017, tra sale, code, film, colpi di fulmine e ferali delusioni: il consueto appuntamento con il “Minuto per minuto”, cronaca festivaliera dal Lido con aggiornamenti quotidiani, a volte anche notturni o drammaticamente mattinieri…
Concorso, Fuori Concorso, Orizzonti, Cinema nel Giardino, Settimana della Critica, Giornate degli Autori e tutto quel che segue. Cercheremo di raccontarvi le frenetiche giornate alla Mostra del Cinema di Venezia 2017: undici giorni con Frederick Wiseman, Paul Schrader, Darren Aronofsky, Guillermo Del Toro, George Clooney, Alexander Payne, Abdellatif Kechiche, Hirokazu Kore-eda, Martin McDonagh, Warwick Thorton, Robert Guédiguian, Andrew Haigh, Vivian Qu, Xavier Legrand, Paolo Virzì, Manetti Bros., Sebastiano Riso, Andrea Pallaoro, Samuel Maoz, Ziad Doueiri…
Sabato 09 settembre
20.30
Ed eccoci ai premi, distillati con tedioso ritmo nel corso di una cerimonia televisivamente devastante. Alla fine, le previsioni dell’ultimo giorno (ma già si vociferava) sono state rispettate. Poteva andare meglio. Poteva andare peggio. Poteva piovere.
La fantasia al potere, e questo ci basta.
Leone d’oro a The Shape of Water di Guillermo del Toro.
Gran Premio della Giuria: Foxtrot di Samuel Maoz.
Leone d’argento per la miglior regia: Xavier Legrand per Jusqu’à la garde.
Coppa Volpi per la miglior attrice: Charlotte Rampling per Hannah di Andrea Pallaoro.
Coppa Volpi per il miglior attore: Kamel El Basha per The Insult di Ziad Doueiri.
Premio migliore sceneggiatura: Martin McDonagh per Tre manifesti a Ebbing, Missouri.
Premio Speciale della Giuria: Sweet Country di Warwick Thornton.
Premio Marcello Mastroianni: Charlie Plummer per Lean on Pete di Andrew Haigh.
Premio Orizzonti per il miglior film: Nico, 1988 di Susanna Nicchiarelli.
Premio Orizzonti per la migliore regia: Vahid Jalilvand per No Date, No Signature.
Premio Speciale della Giuria Orizzonti: Caniba di Lucien Castaing-Taylor e Verena Paravel.
Premio Orizzonti per la migliore attrice: Lyna Khoudri per Les Bienheureux di Sofia Djama.
Premio Orizzonti per il miglior attore: Navid Mohammadzadeh per No Date, No Signature di Vahid Jalilvand.
Premio Orizzonti per la miglior sceneggiatura: Los versos del olvido di Alireza Khatami.
Premio Orizzonti per il miglior cortometraggio: Gros chagrin di Céline Devaux.
Premio Venezia Opera Prima Luigi De Laurentis: Jusqu’à la garde di Xavier Legrand.
Miglior classico restaurato: Va’ e vedi (1985) di Elem Klimov.
Miglior documentario sul cinema: The Prince and the Dybbuk di Elwira Niewiera e Piotr Rosolowski.
Miglior film in realtà virtuale: Arden’s Wake Expanded di Eugene Yk Chung.
Miglior esperienza in realtà virtuale: La camera insabbiata di Laurie Anderson e Huang Hsin-chien.
Migliore storia in realtà virtuale: Bloodless di Gina Kim.
Ci si rivede il prossimo anno… [e.a.]
17.30
And the winner is… Le voci si rincorrono e tutti regalano certezze. Riportiamo quelli che sarebbero i quattro titoli in corsa: Tre manifesti a Ebbing, Missouri di Martin McDonagh, The Shape of Water di Guillermo del Toro, Foxtrot di Samuel Maoz e The Insult di Ziad Doueiri. E poi Zoff, di testa… [e.a.]
14.25
Comincia e finisce ancora una volta con il mare, il suo elemento poetico per eccellenza, l’ultimo film di Takeshi Kitano, Outrage Coda. Kitano chiude con la trilogia, si immagina guerre tra gang in scala più ampia, che coinvolgono la Corea. Il disegno della serie Outrage si conferma chiaramente con questo film, come già nel precedente Ryuzo and the Seven Henchmen. Realizzare una poetica degli yakuza al tramonto, un malinconico mondo di intrighi, combattimenti, sparatorie, codici d’onore che sta volgendo al declino. Un Kitano quanto mai compassato che sottrae e lavora di climax lasciando in fondo le sparatorie più efferate. [g.r.]
13.33
Volge ormai alla conclusione la 74esima edizione della Mostra e – in attesa dei premi – è tempo di recuperare qualche film, approfittando delle ultime proiezioni. Tra queste, è stato presentato in mattinata nella sezione Cinema del Giardino Controfigura di Rä di Martino, meta-cinema ambientato in Marocco, visivamente molto affascinante e forse troppo affastellato narrativamente. Nel mettere in scena il tentativo di dirigere un remake di The Swimmer, iconico esempio della New Hollywood, Controfigura finisce infatti soprattutto per rivelarsi una meditazione sul paesaggio e sulle sue trasformazioni occidentalizzanti, mentre i continui passaggi di consegna degli stessi ruoli a diversi attori appaiono alla lunga un po’ pretestuosi. [a.a.]
13.12
Ultimo dei film presentati in concorso a Venezia 74, Jusqu’à la garde di Xavier Legrand è un film che tratta il tema della violenza domestica, che riesce a essere al contempo un’opera sul sociale e un film di genere angosciante, tra Repulsion e Shining. Le due coordinate non si ostacolano a vicenda, anzi si rinforzano. La violenza domestica può essere un film dell’orrore. [g.r.]
Venerdì 08 settembre
22.05
Facciamo un passo indietro – con cautela, visti i postumi di una delle rarissime feste che ci siamo concessi (bianco, rosso e rosè…). Nel pomeriggio si è svolta la cerimonia di premiazione della trentaduesima edizione della Settimana della Critica e il premio del pubblico è stato assegnato all’argentino Temporada de caza, esordio di Natalia Garagiola. Riportiamo anche gli altri due premi della SIC: Premio Circolo del Cinema di Verona a Team Hurricane di Annika Berg, Premio Mario Serandrei – Hotel Saturnia per il Miglior contributo tecnico a Les garçons sauvages di Bertrand Mandico. [e.a.]
16.53
Il tempo dei premi è già arrivato. E saranno tantissimi, in attesa di quelli ufficiali. Impossibile segnalarli tutti, quindi procediamo a casaccio. Partiamo da Gatta Cenerentola, che mette in saccoccia la segnalazione della commissione “Film della Critica” del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani (SNCCI), il Premio Speciale Francesco Pasinetti 2017 del Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani (SNGCI) e il Premio OPEN. [e.a.]
15.09
Evviva John Woo! Arriva il suo nuovo film al Lido, presentato fuori concorso, e si torna ad assaporare il sapore di un cinema antico e perennemente giovane; rimettendo in scena Kimi yo Fundo no Kawa o Watare di Junya Satō (1976), il maestro hongkonghese se ne va a Osaka, omaggia lo straordinario Ken Takakura, che di quel film fu protagonista, e gira un action colmo di (auto)ironia che lascia senza fiato tra proiettili vaganti, medicina sperimentale, inseguimenti a bordo di qualsiasi mezzo esistente. Parlato in più lingue – giapponese, cinese e inglese – Manhunt è l’opera per niente senile di un cineasta prezioso e ancora oggi fondamentale. E l’immancabile volo di colombi irrompe in scena in modo così brillante che non può che scattare l’applauso. [r.m.]
13.33
Presentato in concorso anche il quarto e ultimo dei film italiani di Venezia 74: Hannah di Andrea Pallaoro è il ritratto dolente, silente ed estenuato di un’anziana donna (interpretata con classe da Charlotte Rampling) a cui le cose vanno sempre peggio – a partire dall’incarcerazione del marito. Pallaoro lavora su ellissi, campi stretti, riflessi, interni claustrofobici e finisce per costruire un film punitivo e in fin dei conti molto esile. Dopo Dove cadono le ombre di Valentina Pedicini, un altro regista italiano che cerca di fare il verso – senza riuscirci – a certo cinema cupo nord-europeo. [a.a.]
10.52
Sono novanta minuti densissimi quelli di Femmina ribelle (1956) di Raoul Walsh, pellicola riportata all’originario splendore, presentata nella sezione Venezia Classici. Honolulu in formato CinemaScope e sgargianti colori DeLuxe per un percorso di redenzione e riscatto di una femme fatale di provincia, respinta dalla grande città e costretta a cercar fortuna ai confini del Paese. In questa parabola walshiana rientra un po’ di tutto, dal noir al war movie, con personaggi che vanno e vengono, e destini (forse) già scritti. Jane Russell, rossa fiammante, canta Keep Your Eyes On The Hands; i giapponesi radono al suolo Pearl Harbor; la passione divampa e un villain miope incombe. Avrà ragione il disilluso scrittore o la femmina ribelle? [e.a.]
9.44
Ultima puntata a ieri sera per raccontare del nuovo film di Abel Ferrara, Piazza Vittorio, anch’esso presentato fuori concorso. Ambientato e dedicato alla celebre piazza romana da tempo simbolo del multiculturalismo cittadino, il documentario di Ferrara si muove tra ritratto compassato di alcuni degli abitanti della zona (tra cui Matteo Garrone) e momenti geniali tipici del cineasta italo-americano, come quando si mette a discutere con un ragazzo africano che si è stufato di farsi intervistare. L’unica perplessità viene dal fatto che forse si è dedicato troppo spazio agli attivisti di Casa Pound, i quali certo non si segnalano per essere dei fautori dell’integrazione. Anche se in ogni caso va detto che, sin dall’inizio, Ferrara si presenta ai suoi intervistati come un immigrato tale e quale a loro. Quindi la sua posizione dovrebbe essere chiara. [a.a.]
9.16
Restiamo alla giornata di ieri per parlare del mediometraggio di Antonietta De Lillo, Il Signor Rotpeter, presentato fuori concorso. Singolare adattamento del racconto di Kafka Una relazione per un’Accademia, il film si regge sull’idea geniale dello scrittore boemo (il racconto di vita di una ex-scimmia che ha imparato a comportarsi da uomo) e sull’ottima performance dell’attrice Marina Confalone che interpreta Rotpeter. Quel che però alla lunga risulta evidente è un eccessivo debito verso la rappresentazione teatrale già messa in scena in passato dalla stessa Confalone. Peccato, perché ci sarebbe piaciuto vedere ancora di più il nostro Rotpeter che si aggira sperduto e straniato per le vie della Napoli contemporanea. [a.a.]
9.04
È apparso abbastanza deludente il film di chiusura della 32esima edizione della Settimana Internazionale della Critica, Veleno, diretto da Diego Olivares. Ambientato nella Terra dei Fuochi, il film mette pigramente in scena i drammi di quel territorio – sversamento di rifiuti tossici, difficoltà varie per contadini e allevatori, malattie – senza riuscire a dare corpo al racconto e ai personaggi. In più, Olivares appare anche maldestro in diversi passaggi registici, sempre troppo schematico e rigido nelle scelte visive. [a.a.]
Giovedì 07 settembre
22.12
Loving Pablo è un kolossal sulla figura di Pablo Escobar, il grande narcotrafficante che soggiogò l’intera nazione colombiana, a opera di Fernando León de Aranoa con grandi star come Javier Bardem e Penélope Cruz. Poco sfruttati i tanti appigli che una tale figura potrebbe fornire così come dribblati tutti gli snodi internazionali controversi, in nome di un film di grande budget che nemmeno si avvicina al grande cinema sulla criminalità organizzata. Scorsese non abita certo qui. [g.r.]
17.35
Ultimo film in concorso in questa 32esima edizione della Settimana Internazionale della Critica, Drift di Helena Wittmann è con ogni probabilità anche il titolo più estremo e oltranzista della selezione. Nel seguire il perdersi progressivo di una donna che viaggia sul mare, Drift diventa film di onde e linee, sciabordanti e piene di rimbombi. Con uno stupore primigenio che riporta agli albori del cinema, Wittmann firma un’opera d’esordio affascinante. Quasi mesmerica. [r.m.]
16.45
Ieri sera, nello storico locale Pachuka, la troupe e la produzione di Ammore e malavita ha festeggiato la presenza in concorso del film. Atmosfera ovviamente rilassata, cibo e bevande, ma soprattutto un’esibizione dal vivo di Pivio & Aldo De Scalzi con il cast e ospiti d’eccezione a intonare le canzoni della colonna sonora. Un concerto inatteso e in grado di aizzare le folle. Fino a tarda notte… [r.m.]
16.20
Un film di coesistenze, di sguardi e immersioni, di passioni vissute e negate, di amori e debordante sensualità. Tre ore che volano leggiadre, facendosi inondare dalla luce. La luce del cinema di Abdellatif Kechiche, che ancora una volta lascia danzare i suoi personaggi, prendendo per mano la vita e portandola sullo schermo. Presentato in concorso, Mektoub, My Love: Canto Uno è un flusso che si aggiunge a La vita di Adele, Cous cous, La schivata… tutti a comporre un affresco collettivo, vitale. Mektoub, a suo modo, è rohmeriano. E anche un po’ vanziniano. Ti butti nell’acqua / e mi lasci a guardarti / e rimango da solo / nella sabbia e nel sole… [e.a.]
Mercoledì 06 settembre
22.35
È un grosso passo indietro rispetto al suo esordio Trap Street, il nuovo lavoro di Vivian Qu, Angels Wear White, presentato in concorso qui al lido. La regista cinese cambia decisamente registro e lascia da parte la metafora esistenzial-filosofica del film presentato nel 2013 alla Settimana Internazionale della Critica per affrontare il tema dei temi del cinema mandarino contemporaneo: l’ossessione per i soldi e per lo sfruttamento della povera gente, in questo caso delle ragazzine costrette a prostituirsi. Al di là della dimensione di denuncia e di simbolismi facili, non resta purtroppo molto. Un film giusto, ma in fin dei conti prevedibile e già manierista nel suo afflato d’indignazione. [a.a.]
17.08
Trovarsi di fronte a un gruppo di ragazze/ragazzine, umorali e scatenate, ben poco allineate, problematiche, ribelli, dolci, creative. Insomma, adolescenti come tante altre, diverse da tante altre. Presentato alla SIC, Team Hurricane di Annika Berg è un bizzarro patchwork visivo, narrativo, tra colori e formati che danzano a ritmo rap, disco, tecno e quel che capita. Corpi, confessioni, trasgressioni, affetti. Peni giganti e split screen. Hentai e roghi di peluche. Bizzarro e imperfetto. Imperfetto e sincero. [e.a.]
13.52
Prosegue il racconto del cineasta Warwick Thornton sulla condizione passata e presente degli aborigeni australiani. Questa volta, con il western Sweet Country, presentato in concorso alla Mostra, Thornton tratteggia una parabola morale che tira in ballo giustizia, fede, territorio, appartenenza, coesistenza. Immersi nelle lande desolate e desertiche, i protagonisti di questo racconto vivono un destino già scritto, tragicamente prevedibile, troppo didascalico nonostante gli onorevoli intenti. Ottimo cast, interessanti i brevi flashback e flashforward che rimarcano l’inevitabile e reiterata ingiustizia. [e.a.]
11.40
La giornata si è aperta con Ammore e malavita, il nuovo film dei Manetti Bros., che tornano ancora una volta a lavorare su Napoli e sulle sue melodie, di canti e proiettili. Mescolando la commedia al mélo-noir, i due fratelli romani centrano ancora una volta il bersaglio, grazie a una colonna sonora sfrenata, a coreografie musical pensate con estrema intelligenza e a un cast dominato dalla presenza scenica di Carlo Buccirosso, davvero sublime nella parte del boss della camorra Don Vincenzo. Con un occhio a Hong Kong, ma restando partenopei: perché il resto del mondo “nun è Napule”… [r.m.]
Martedì 05 settembre
18.51
Il colpo al cuore della giornata, ma forse anche dell’intero festival, arriva dalla Settimana Internazionale della Critica, dove è stato presentato al pubblico Les Garçons sauvages, opera prima del francese Bertrand Mandico. Struggente e visionario punto di incontro tra le avventure di Jules Verne e Robert Stevenson e I ragazzi selvaggi di William Burroughs, il film propone un’estetica volutamente démodé, che spazia da Jean Vigo a Jean Genet, passando per le sperimentazioni di Kenneth Anger e i suadenti deliri di Shūji Terayama, Hiroshi Teshigahara e Kōji Wakamatsu, per approdare sulle sponde del b-movie statunitense degli anni Cinquanta. Un capolavoro che osa tutto ciò che è lecito osare, e anche oltre, racconto di deformazione e rinascita di un gruppo di ragazzini sbandati che, portati su un’isola misterica nel mezzo dell’oceano, iniziano a mutare pelle, e sesso. Girato in super-16, un piccolo e stordente capolavoro, visione irrinunciabile della Mostra. [r.m.]
18.48
In tarda mattinata abbiamo recuperato, in anteprima stampa, L’equilibrio, il nuovo film di Vincenzo Marra selezionato all’interno delle Giornate degli Autori: è lecito parlare con ogni probabilità dell’opera più matura del regista partenopeo, che con rigore e semplicità apparente racconta la lotta quotidiana di un parroco deciso a opporsi allo strapotere della criminalità organizzata che è il vero e proprio sistema, al di sopra di tutto e tutti. Il sacerdote interpretato da Mimmo Borrelli è un personaggio che osa, laddove nessuno sembra più osare. Non sempre la messa in scena riesce a convincere, ma L’equilibrio è un film da non sottostimare, né trattare con sufficienza. [r.m.]
16.22
Tralasciamo fischi, grida e insulti a fine proiezione – tanto era già tutto previsto. Usando le stesse parole di Aronofsky, Mother! sgorga da un brodo primordiale di angoscia e impotenza. Pellicola ambiziosa, visionaria, metaforica, claustrofobica, Mother! cerca di mettere in scena l’essenza della creazione e della distruzione, del caos che ci circonda, di quella stessa ferocia cannibale che porta gli spettatori a smembrare un’opera, a cibarsene per mille svariati motivi. Un film che sovrappone temi e paure ancestrali, personali, collettive, attuali. Un horror volutamente caotico e magmatico, nato per essere vivisezionato, fonte di possibili letture in chiave religiosa, materna, sociologica, politica, storica e via discorrendo. Tutto. Troppo? Mother! è il blockbuster (im)possibile che solo Aronofsky avrebbe potuto immaginare, scrivere e girare. Artista, padre, divinità. Con autoironia (per fortuna). [e.a.]
16.01
All’ultima proiezione utile siamo riusciti a recuperare Caniba, titolo selezionato in Orizzonti di cui s’è parlato molto in questi giorni perché vi si racconta una vicenda di cannibalismo, quella accaduta a Parigi nel 1981 quando lo studente giapponese Issei Sagawa uccise e poi mangiò una collega d’università, dopo che questa aveva rifiutato le sue avance. Diretto da Véréna Paravel e Lucien Castaing-Taylor, già autori di Leviathan, Caniba mette in scena e fa parlare proprio l’omicida, ormai anziano e a piede libero in Giappone, lasciandolo dialogare con il fratello, anch’esso tormentato da una serie di inquietanti tendenze. I due registi affrontano – e vincono – la sfida di mostrare il Male, il lato perverso del desiderio, la passione estrema che arriva fino all’omicidio, la pulsione così forte dell’avere la carne altrui da potersi saziare solo mangiandola. Non è un film facile, Caniba, ma è senz’altro un film importante proprio perché fa parlare l’orrore, gli dà corpo e, pur senza mai voler provare a giustificarlo, tenta di capirne le motivazioni. Non andavano così diversamente le cose in un altro recente documentario di straordinaria potenza demoniaca, A German Life, la cui protagonista era la segretaria personale di Goebbels. [a.a.]
13.01
Presentato in concorso a Venezia 74 la nuova opera di Hirokazu Kore-eda, The Third Murder. Nella forma inedita, per il regista giapponese, del film processuale, dove pure sono impostati tutta una serie di problemi e paradossi relativi al sistema giudiziario, tornano i temi classici del regista, il dramma intimista, l’assenza e la scomparsa di un membro del nucleo familiare, il rapporto tra genitori e figli. Ancora una volta un cinema sui riverberi dell’esistenza, un cinema che registra la condizione dopo una tempesta. [g.r.]
10.36
Nonostante sia passato ormai qualche giorno dalla presentazione qui al festival ci continuano a ritornare a tratti le immagini di This is Congo, selezionato fuori concorso, e allora non possiamo far altro che scriverne qualche riga. Il film del fotoreporter Daniel McCabe non ha nulla di innovativo ed è piuttosto una inchiesta, che si avvale però della profonda conoscenza del paese africano da parte del regista e dell’eccezionale possibilità di avvicinare dei testimoni chiave, come ad esempio l’alto ufficiale dell’esercito che, sotto copertura, lamenta i mali della sua istituzione. E, in più, McCabe si è lanciato con sprezzo del pericolo in situazioni di guerriglia con proiettili e granate che cadono vicino a lui. Tutto questo senza indugiare nel pietismo e nel sensazionalismo. Un film importante anche per la sua natura pedagogica. [a.a.]
10.25
Inutile farci tanti giri intorno: Alessandro Rak e il suo talentuoso gruppo di colleghi, che già avevano mostrato segnali più che incoraggianti con l’opera prima L’arte della felicità, rappresentano la grande speranza per l’animazione italiana. Pur non privo di difetti narrativi ed estetici da limare, Gatta Cenerentola è visivamente abbacinante, spesso travolgente coi suoi complessi cromatismi – con più tempo e budget, probabilmente Rak tirerebbe fuori dal cilindro mirabilie à la Il conte di Montecristo di Mahiro Maeda. Passato e futuro, luce e oscurità, cenere e ricordi, musica e malavita: Gatta Cenerentola è un fiume in piena che racconta la nobiltà e la miseria di Napoli. Animazione adulta e consapevole. Ottime notizie, grandi speranze per il futuro. [e.a.]
Lunedì 04 settembre
15.40
Non tutto torna nel cinema di McDonagh (dei McDonagh), così minuziosamente costruito, intrecciato, complesso, moralmente debordante. Gli artificiosi incastri del fato tendono a prendere il sopravvento sulle umane debolezze, sui percorsi di redenzione e vendetta, sulla stessa riuscita e fluidità dell’intreccio. La penna di Martin McDonagh accumula, assecondata da una messa in scena che ondeggia classicamente tra il cristallino e il sontuoso; quella stessa penna, a volte, sovrasta e soffoca. È il rischio che corre a ogni sequenza, a ogni snodo narrativo, Tre manifesti a Ebbing, Missouri. Un rischio sfacciatamente calcolato. McDonagh sa giocare col fuoco, con la carne e con lo spirito. E sa tratteggiare una ballata dolente, nerissima, grottesca. Divertente e tragica. Sorprendentemente vivissima. La strada da Ebbing a Los Angeles adesso è più breve… [e.a.]
12.50
A Orizzonti è passato Oblivion Verses, film iraniano ambientato in Cile del giovane regista Alireza Khatami, interessante tentativo di smarcarsi dalla tradizione neorealista del suo paese. I modelli sono il realismo magico e il surrealismo che trionfano nella metafora persistente delle balene che pure volano. Il tutto per raccontare echi di dittature, repressioni autoritarie tra i becchini di un cimitero, inseguendo un filo conduttore delle tragedie della Storia che dal Cile e dal Sudamerica passa ovviamente anche per l’Iran. Purtroppo il regista non riesce a controllare una tale proliferazione di simbologie e arriva all’overdose allegorica. Peccato. [g.r.]
12.37
Non è programmato all’interno dei lavori della Mostra, ma sarebbe impensabile non spendere due parole sugli ultimi episodi di Twin Peaks, andati in onda stanotte tra le due e le quattro. Senza entrare in dettagli che potrebbero rovinare la visione agli appassionati, due ore dalle quali si esce frastornati, attoniti, terrorizzati ed esaltati. L’evento dell’anno è finito, ora si può tornare alle miserie quotidiane. [r.m.]
12.20
Un altro film proiettato ieri che merita di essere citato è Non c’è pace tra gli ulivi di Giuseppe De Santis, presentato in una versione restaurata buona ma non perfetta (il frame che, ogni tanto, scatta stranamente). Resta la grandezza a-temporale del film, girato nel 1950 a seguito del successo che De Santis aveva avuto con Riso amaro. Di quest’ultimo in Non c’è pace tra gli ulivi si ritrova lo stesso approccio di mélange tra neo-realismo e melodramma (ma anche western) dal sapore hollywoodiano. Con in più un che di brechtiano, visto che gli interpreti guardano spesso in macchina, si esibiscono in una serie di a-parte e il regista parla in prima persona in voice over. Una scelta assolutamente necessaria, visto che la storia che vi si racconta proviene dalla stessa terra natale di De Santis, la Ciociaria, e che il racconto si pone nei toni – aspri e allo stesso tempo suadenti – di un’epica dall’afflato educativo. [a.a.]
11.45
Torniamo a ieri sera quando è stato presentato, sempre in concorso, il nuovo film di Frederick Wiseman, EX LIBRIS – The New York Public Library, dedicato all’istituzione bibliotecaria newyorkese, composta di ben 92 divisioni. Come suo solito, Wiseman indaga con attenzione e curiosità la vita e il meccanismo che si produce all’interno (e, a tratti, all’esterno) del luogo da lui scelto, la cui esistenza quotidiana scorre tra mille attività. Quel che in effetti risulta più sorprendente è il lodevole sforzo che la New York Public Library mette in atto per educare i suoi concittadini e tessere così una comunità. Nelle tre ore e passa di durata del suo film, però, l’autore di Titicut Follies sembra a tratti perdere il filo mettendo degli episodi apparentemente non troppo significativi. Che per fortuna vengono riscattati da sequenze da antologia. Non il miglior Wiseman, ma questo gli basta per essere finora tra i migliori titoli del concorso, dove un suo film viene selezionato per la prima volta. [a.a.]
11.32
Presentato in mattinata il secondo dei quattro film italiani del concorso, Una famiglia di Sebastiano Riso. Racconto goffo e incertissimo su una coppia dedita alla pratica dell’utero da affittare a genitori che non possono avere figli, Una famiglia è ossessivamente e vacuamente chiuso su se stesso e su due caratteri decisamente improbabili, l’uomo incarnato da un luciferino Patrick Bruel, la donna da una stordita Micaela Ramazzotti, il cui personaggio va ben oltre l’autolesionismo. Quel che alla base non funziona – e che, di conseguenza, indebolisce tutto il film – è il fatto che i due protagonisti abbiano creato una sorta di racket dello smercio di bambini. In più Riso a tratti esagera con le ambizioni autoriali, come quando dal nulla imbastisce un complicatissimo e futile piano-sequenza. Timidi applausi alla fine di una proiezione tra l’altro tempestata da problemi tecnici. [a.a.]
10.27
Presentato ieri sera alla Settimana Internazionale della Critica, The Gulf di Emre Yeksan è un’inedita analisi geologica, antropologica e intima ambientata nella città di Smirne. Protagonista è Selim, un uomo di circa trent’anni che ha perso moglie e lavoro e per questo fa ritorno alla sua casa natale. La famiglia lo accoglie come può, mentre gli amici gli parlano di cose che lui non ricorda. Nel porto poi è appena esplosa una petroliera e questo scatenerà sommovimenti terrestri e umani, piuttosto profondi. Film immersivo, affascinante, ironico, The Gulf impone al suo personaggio un percorso di conoscenza di sé del tutto privo di convenzioni e cliché e si segnala come uno degli esordi più brillanti della SIC 2017. [d.p.]
Domenica 03 settembre
17.55
Film perduto, ritrovato e restaurato negli anni Sessanta e oggi nuovamente ripulito dalle cicatrici del tempo, The Old Dark House (Il castello maledetto, 1932) di James Whale torna a deliziarci con le atmosfere orrorifiche e i toni allegri, non privi di slanci passionali e sottotesti che troveranno terreno meno fertile quando si stringeranno le maglie del Codice Hays. Una lezione di scrittura (e non solo di messa in scena) che andrebbe ripassata accuratamente, e un cast da lucciconi: Boris Karloff, Melvyn Douglas, Charles Laughton, Gloria Stuart, Lilian Bond… Flop in patria, rifatto nel 1963 da William Castle, The Old Dark House ha generato parecchi figli: tra questi, splendidamente fuori controllo, The Rocky Horror Picture Show. [e.a.]
17.34
Pochi piaceri cinefili si avvicinano a quello di godere sul grande schermo di un film del passato recuperato, magari anche già visto in precedenza ma in televisione o in copie di pessima qualità. Così, dopo il sublime James Whale di The Old Dark House, nel primo pomeriggio l’occasione è stata quella di (ri)vedere El-haimoune, vale a dire I figli delle mille e una notte, capolavoro del cinema tunisino firmato da Nacer Khemir nel 1984. Misterico e metaforico, dalla forte impronta visionaria e politica, I figli delle mille e una notte non solo non è invecchiato di un giorno, ma sembra sempre più attuale, grazie al discorso che affronta sul tema della dispersione nel deserto e della jihad. Un’opera che lascia a bocca aperta, e che viene restituita al suo splendore grazie al restauro curato dalla Cinematek di Bruxelles (in sala era presente Nicola Mazzanti, il conservatore della cineteca belga) insieme alla nascente Cinémateque Tunisienne, sogno che finalmente si fa realtà di una cineteca a Tunisi, l’altra sponda del Mediterraneo troppo in fretta dimenticata e snobbata. Dopo la proiezione siamo stati tra i pochi fortunati a partecipare a un incontro con Mazzanti, il regista e Mohamed Challouf, consigliere artistico della neonata cineteca, primo passo verso un doveroso recupero del cinema tunisimo e panafricano. [r.m.]
17.27
Nella baraonda festivaliera ci eravamo dimenticati di spendere due parole – o forse qualcosa di più – anche sul nuovo film di Robert Guédiguian, La Villa, in corsa per la vittoria del Leone d’Oro. Il regista francese torna ai temi cardine della propria filmografia, sia sotto il profilo geografico (la costa nelle vicinanze di Marsiglia, città natìa di Guédiguian) che per quel che concerne l’attenzione a un universo proletario oramai prossimo alla sparizione, almeno nella consapevolezza di classe che un tempo lo contraddistingueva. Politico e familiare, il cinema di Guédiguian non propone mai sorprese particolari, ma sa farsi apprezzare per la sua sincerità e per l’afflato socialista e comunista che lo anima. Eccellente come al solito il cast, con i fedelissimi Ariane Ascaride, Jean-Pierre Darroussin e Gérard Meylan che superano le barriere dello spazio-tempo apparendo giovani in un estratto di Ki lo sa?, film giovanile del regista. [r.m.]
16.57
Stati di alterazione di scena al Lido questo pomeriggio, con la proiezione di Woodshock, opera prima di Kate and Laura Mulleavy, prodotta e interpretata da Kirsten Dunst. Nel film, la Dunst incarna Theresa, una donna che lavora in uno store di cannabis e che accetta di praticare alla madre malata l’eutanasia con un potente cannabinoide. Inizia così un’allucinata, prolungata, lisergica elaborazione del lutto, tra immagini bucoliche, lensflare, cortecce di legno, prismi ottici, cristalli, carta da parati floreale. In un crescente delirio audiovisivo che, assorbito dal suo sperimentalismo estetico, rischia in più di un’occasione di perdere di vista il senso del ridicolo. [d.p.]
14.10
Paolo Virzì attraversa l’oceano per adattare un romanzo sulla senilità, la memoria e la morte. The Leisure Seeker, in concorso qui al Lido (scelta inappropriata e rischiosa), è articolato come un road movie, privo però di paesaggi, mondi esterni e sviluppi interiori. Arteriosclerotico quasi quanto il personaggio di Donald Sutherland, il film procede per reiterazioni e stasi, senza approdare a molto, né narrativamente né sotto il profilo emotivo. Applausi scroscianti e abbastanza incomprensibili in Sala Grande per un’opera gracile e un po’ svogliata. [r.m.]
13.12
Presentato in Orizzonti l’australiano West of Sunshine del regista Jason Raftopoulos. Una storia imperniata sulla ricerca di soldi per saldare il debito a uno strozzino, e contemporaneamente al recupero del rapporto padre-figlio. Un’operazione che eredita tutto un bagaglio del cinema indipendente americano, un road movie cittadino, nel contesto metropolitano di Melbourne, un Paper Moon trasposto in altra epoca e altra latitudine. Tutto incentrato sulla ricerca spasmodica della soluzione di un problema, che alla fine si rivela facile mentre se ne risolve un altro molto più difficile. E la via d’uscita passa per il vecchio cubo di Rubik, molto più stimolante dei giochini sullo smartphone. [g.r.]
12.03
Parliamo di musicista grandissimo, quel Sakamoto che rimane indelebile nella memoria di tanti per la colonna sonora di Furyo di Nagisa Oshima, dove pure interpretava il tenente giapponese innamoratosi del prigioniero David Bowie. Peraltro viene sfatato il mito che il musicista non sopporti tuttora la sua immagine in quel film e, infatti, viene rivelato che, quando fu scelto dal regista come attore, lui si propose anche per comporre la colonna sonora, mentre la vulgata ha sempre voluto che il suo ingaggio come attore fosse successivo a quello di musicista. Tutto questo nel documentario Ryuichi Sakamoto: Coda presentato fuori concorso e diretto da Stephen Nomura Schible. Un altro lavoro onesto ma senza pretese, da extra di un dvd o un blu-ray, nella media dei documentari sul cinema che passano a Venezia. La cosa più interessante è in realtà l’aver seguito il maestro nella sua esplorazione dei territori devastati dallo tsunami 2011, per trarre ispirazione per nuove sonorità. [g.r.]
11.12
È come al solito improntato a un’idea di cinema estremamente compassata il nuovo film di Stephen Frears, Vittoria e Abdul, presentato in mattinata fuori concorso e accolto – giustamente – con freddezza dalla stampa. Dopo i fasti di Philomena, Frears ritorna al modello d’incontro tra due personaggi eccentrici, uno più anziano (in questo caso nientemeno che la regina Vittoria) e uno più giovane (un proletario indiano che si conquista il favore della regnante). Ambientato a fine Ottocento, Vittoria e Abdul è un film fastidioso per come mette in scena il confronto culturale tra i supponenti inglesi e i servili indiani, ed è anche politicamente ambiguo visto lo sprezzo e il sospetto che traspare verso i musulmani d’India. Un tipo di cinema vecchissimo, abusato, aduso alla presunta superiorità albionica, e che continua a sopravvivere a se stesso al di là di nuove mode e nuove tendenze. [a.a.]
09.50
Sospeso tra film di denuncia e thriller psicanalitico, tra toni realistici e metafisici, Dove cadono le ombre di Valentina Pedicini riporta in luce una pagina di storia vergognosa e dimenticata: lo sterminio dell’etnia nomade jenisch portato avanti dalla Pro Juventute (sorta di “croce rossa”) in svizzera fino al 1986. La regista del documentario Dal profondo conferma il suo talento visivo sovvenzionato da interessanti scelte estetiche, ma mescolando realtà e finzione, presente e passato (particolarmente fuori luogo l’inquadratura “horror” con i bambini jenish che appaiono in corridoio dell’istituto) il film in più di un’occasione le sfugge di mano. Alle Giornate degli Autori di Venezia 2017. [d.p.]
Sabato 02 settembre
19.23
In concorso a Orizzonti è stato presentato, con la delegazione in sala, La vita in comune di Edoardo Winspeare, il nuovo film del regista pugliese a tre anni di distanza da In grazia di Dio, all’epoca alla Berlinale. Il centro del discorso è sempre la terra del regista, e il modo di far cinema – una volta perso il treno della ‘grande industria’ – è ancora quello autarchico che porta in scena parenti e amici. Una scelta estrema ma apprezzabile, soprattutto perché il pur non indispensabile La vita in comune mantiene una freschezza e una sincerità per le quali viene naturale parteggiare. Una commedia bizzarra, esile esile ma a tratti divertente, che rasserena lo sguardo pur parlando di situazioni di vita al limite del sostenibile. Applausi un tantino generosi ma convinti alla fine della proiezione. [r.m.]
16.32
Una lunga fila che ha lasciato fuori numerosi accreditati ha preceduto la proiezione nella (troppo) piccola Sala Casino di The Private Life of a Modern Woman di James Toback. Ambientato in gran parte in un’unica location (un appartamento) e con protagonista Sienna Miller, il film di Toback è un gioco metacinematografico e metanarrativo arguto su realtà e finzione, personalità multiple, relazione attore-regista, delitto e castigo. Nell’unica scena dal potere vagamente sentimentale, Toback inserisce poi un riferimento alla destinazione ultima di questo suo lavoro, ovvero il Lido di Venezia, cosa che abbiamo visto accadere da queste parti anche lo scorso anno nel corso della proiezione lidense di The Afternoon di Tsai Ming-liang. Che stia nascendo un nuovo genere cinematografico? [d.p.]
15.44
Da Serge Toubiana a Gigi Marzullo. Questo è il ventaglio di personaggi che passano nel documentario di Anselma Dell’Olio, La lucida follia di Marco Ferreri. Un omaggio al grande regista che può vantare una gran quantità di materiale di repertorio, tra cui quello straordinario della pessima accoglienza di La grande abbuffata a Cannes. Vengono intervistati più che altro attori che avevano lavorato con lui, per cui si rimane sempre sul piano aneddotico, a parte ovviamente il contributo analitico di Toubiana. Rimane disatteso il fatto che un personaggio definito da molti come scomodo e dissacrante non appaia mai in questi termini nel documentario. Ma poteva andare peggio. [g.r.]
15.35
Mattinata intensa alla Mostra. Certo, dipende anche dai percorsi scelti. Alle 8.45 in sala Volpi col buio è rapidamente calato uno spettrale silenzio: seconda e ultima proiezione della versione restaurata di Va’ e vedi (Idi i smotri, 1985) di Elem Klimov. Annichilente capolavoro. Il restauro digitale restituisce al fuoco, al sangue, al fango e alla polvere il loro colore, qui tragico, infernale. Una allucinatoria rappresentazione del Male, del buco nero del Secolo breve, delle atrocità dei nazisti (e, più in generale, dell’uomo). Straordinarie sequenze si susseguono: l’incontro nel bosco tra Fliora e Glasha, la palude melmosa, il furto della mucca, la strage nel villaggio, il serrato montaggio finale.
Altri toni, invece, quelli del brillante Suburbicon, giocattolone presentato in concorso, diretto da Clooney e scritto a otto mani dai Coen, da Clooney e dal fidato Heslov. Cast lussuoso e l’ipocrisia wasp demolita pezzo per pezzo con secchiate di humor nero e sana violenza. Clooney e soci giocano col sogno della villetta con giardino e lo spauracchio dell’integrazione, sparigliando chiaramente le carte. Come ci ha insegnato Lynch, gli incubi possono trovare terreno fertile (anche) nei giardini ben curati… [e.a.]
13.20
La prima vera piacevole sorpresa di questa edizione del festival arriva – come spesso accade – da una sezione secondaria, in questo caso quella della Biennale college, dove è stato presentato in mattinata Beautiful Things. Diretto dal torinese Giorgio Ferrero, il film è una stordente sinfonia visiva sugli oggetti e sul processo di dis-umanizzazione dell’uomo di tale potenza visionaria che a tratti si rischia di rimanere preda della sindrome di Stendhal. Dai pozzi di petrolio a una nave cargo, passando per la camera anecoica (vale a dire priva di eco, in cui si testano le funzionalità sonore degli ogggetti) e per finire con un termovalorizzatore – luogo infernale in cui tutto si distrugge – Giorgio Ferrero costruisce un saggio filosofico per immagini tendente alla dissonante e altisonante astrazione. Con echi, persino, di Citizen Kane e di 2001: Odissea nello spazio. Da recuperare assolutamente. [a.a.]
09.54
Un racconto di formazione al confine del mondo. È un’acuta esplorazione delle dinamiche della comunicazione virile Temporada de caza (Hunting Season), esordio della regista argentina Natalia Garagiola, presentato ieri sera alla Settimana Internazionale della Critica. Protagonista è un adolescente ribelle senza causa che, in seguito alla morte della madre, si trasferisce a vivere con il padre, che non vede da tempo, in una remota località della Patagonia. Tra accesi litigi, scazzotate, battute di caccia e colpi di fucile, i due dovranno trovare un modo per comunicare. Teso e plumbeo, con una macchina da presa a mano sempre a ridosso dei personaggi, Temporada de caza indaga il sofferto processo di elaborazione del lutto – e dunque di crescita personale – di un adolescente, concedendoci qualche apertura in scenari “western” mozzafiato. [d.p.]
9.29
Restiamo per un momento ancora a ieri sera per segnalare la presentazione in concorso di Foxtrot, secondo film di finzione dell’israeliano Samuel Maoz, che otto anni fa vinse il Leone d’Oro con Lebanon. Rispetto al suo precedente lavoro che era sostanzialmente ambientato tutto all’interno di un carrarmato, qui Maoz si sbizzarrisce tra cambi di location e bruschi mutamenti di tono, ma il discorso alla fine è sempre lo stesso: una volontà totalizzante di estetizzazione che finisce per mettere in secondo piano tutto il resto. L’intento di Maoz pare essere solo quello di voler stupire e abbacinare lo spettatore con spiazzanti trovate, e il suo compiacimento alla lunga risulta decisamente fastidioso. [a.a.]
9.15
Tornando con la mente a ieri sera c’è da annotare l’ultimo passaggio, alle Giornate degli Autori, di Mai Mee Samui Samrab Ter, più noto e più comprensibile come Samui Song, il ritorno alla regia di un film di finzione per Pen-ek Ratanaruang a sei anni di distanza dal bel Headshot, presentato all’epoca alla Berlinale. Ratanaruang, nome centrale della cosiddetta new wave thai con Apichatpong Weerasethakul e Wisit Sasanatieng, si lancia in un racconto meta-cinematografico, attraversando i generi e le intuizioni più disparate per arrivare a parlare della donna, del suo essere inevitabilmente schiacciata dal centralismo di un potere maschile e opprimente. Una satira spiazzante e a tratti in pieno delirio della Thailandia attuale, ma non solo. [r.m.]
Venerdì 01 settembre
19.30
A proposito di cinema italiano, alle Giornate degli Autori è stato il giorno de Il contagio, il film che Matteo Botrugno e Daniele Coluccini (Et in terra pax) hanno tratto dal romanzo di Walter Siti edito da Mondadori nel 2008. Un’opera ambiziosa, che riparte da dove i due registi avevano lasciato il discorso – la borgata romana, la sua epica e le sue storture – per allargarlo alla degenerazione di una città imputridita e di un Capitale fattosi unico punto di riferimento, reale e ideale. Un progetto ambizioso, che in parte si disperde tra i rivoli di una sceneggiatura un po’ farraginosa e in parte nelle deflagrazioni di un’estetica non sempre sotto controllo. Ciò detto, sarebbe puerile non riconoscere il coraggio de Il contagio o l’indubbia capacità di Botrugno e Coluccini di affrontare il popolare senza servire in maniera pedissequa gli schemi predefiniti. Un lavoro incompiuto, magari recalcitrante, ma da non sottostimare. [r.m.]
19.21
Il programma odierno della Settimana Internazionale della Critica prevedeva una accoppiata “campana”: prima dell’esordio al lungometraggio di finzione di Silvia Luzi e Luca Bellino, infatti, è stato proiettato sullo schermo della Sala Perla Visite, cortometraggio diretto da Elio Di Pace e prodotto in seno al Centro Sperimentale di Cinematografia. Partiamo dunque dai quindici minuti in cui Di Pace sceglie di raccontare, con un formato in disuso come il betacam, le chiacchiere della madre e della zia di un giovane detenuto per camorra nel giorno di visita. Non si esce mai dalla cucina dell’appartamento, e tutto resta relegato nel fuori campo, scelta mirabile per cercare di raccontare un microcosmo in cui vige una legge in tutto e per tutto differente da quella esterna. Con regole proprie, abitudini, riti. Un racconto piccolo ma non banale. Affascinante è anche il tessuto sociale e culturale da cui prende il via Il cratere, che indaga il rapporto di un padre che vorrebbe per la figlia appena adolescente una carriera da cantante neomelodica. La realtà è narrata con occhio vigile dai due documentaristi, e soprattutto nella prima metà il film svela un pulsare estetico e umanista che rapisce lo sguardo: peccato però che il film finisca per esaurire il discorso ben prima dei titoli di coda, in una diluizione narrativa che fiacca in parte la stratificazione del discorso. Applausi comunque convinti hanno accolto il finale, per un film irradiato dal candore conquistatore della giovanissima Sharon Caroccia. [r.m.]
17.55
Le strane accoppiate di programma – i cosiddetti slot – a volte producono effetti intollerabili. Non si capisce infatti come mai la versione restaurata di Due o tre cose che so di lei, capolavoro godardiano del 1967, sia stata fatta precedere dal cortometraggio Casa d’altri di Gianni Amelio, se non in ossequio alla volontà di poter replicare più volte possibile (cinque per l’esattezza) il breve – discutibile e svogliato – film che il regista de Il ladro di bambini ha diretto a un anno dal terremoto che ha distrutto Amatrice. Una visione che nel suo indugiare in steadycam sulle rovine della cittadina non può non far ripensare al celeberrimo carrello estetizzante di Kapò, il cui rifiuto tanta parte ha avuto nella formazione teorico-concettuale della Nouvelle vague. Un non-senso, un senso-non-senso, direbbe lo stesso Godard, o forse la perdita di senso del mondo e del cinema contemporanei. Chissà. Comunque Due o tre cose che so di lei ha la veneranda età di cinquantanni ed è un film che invecchia per non invecchiare mai, sciolto da ogni legame di tempo e di spazio; disperato e vitalissimo tentativo di abbracciare il tutto e di stringere il nulla. Sfida all’immagine e al cinema che non ha eguali. [a.a.]
16.42
Si torna sempre in quella casa fatiscente, tra muri scrostati e una natura rigogliosa che sta prendendo il sopravvento. La casa di Afternoon dove Tsai Ming liang si rifugiava con il suo attore feticcio Lee Kang-sheng. E che ora diventa il contenitore dei suoi personaggi e del suo cinema in The Deserted, film girato in realtà virtuale e presentato nel concorso veneziano Venice Virtual Reality. Tsai sa usare la nuova tecnologia con intelligenza ma anche parsimonia, dimostrando che anche muovendo lo sguardo di 360° qualcosa di nascosto e occultato rimarrà sempre. [g.r.]
14.01
L’inglese Andrew Haigh porta in concorso un film solido ed efficace, Lean on Pete, di buona qualità e raffinata costruzione, in particolare narrativa, come d’altronde è sua abitudine (Weekend, 45 anni). Solo che stavolta si misura sui grandi paesaggi americani e sulla vicenda primigenia di un ragazzino che si ritrova on the road, homeless, e rivive il sentimento della wilderness che tanta parte ha nel mito di fondazione della cultura statunitense. Epopea di solitudine ed emarginazione di un ragazzo gentile e dimesso ma testardo, Lean on Pete è al momento uno dei migliori titoli presentati in concorso. [a.a.]
11.13
Tenerezze senili hanno aperto la giornata odierna del Festival, con la proiezione di Le nostre anime di notte (Our Souls at Night) di Ritesh Batra, romance senza troppe pretese prodotto da Netflix con protagonisti Jane Fonda e Robert Redford. Tra traumi del passato e solitudini presenti, i due, che quest’oggi riceveranno il Leone alla Carriera, intrattengono con garbo, scambiandosi affettuosità e confidenze. Si segnala inoltre nel cast la presenza di un altro mostro sacro di Hollywood: Bruce Dern. Talvolta gli attori sono tutto. [d.p.]
9.45
Occasione importante ieri sera in sala Perla 2 – nome dietro al quale si cela in realtà la scomodissima sala delle conferenze stampa – perché vi era la possibilità di recuperare un film breve di Ermanno Olmi, Il tentato suicidio nell’adolescenza (T.S. giovanile), risalente al 1968, perduto da tempo e ritrovato di recente grazie al pertinace fiuto di Tatti Sanguineti. Il documentario è stato presentato alle Giornate degli Autori e, stranamente, era in proiezione unica, vale a dire che non sono previste repliche. Il film è costruito come un’inchiesta dai toni didattici sul disagio giovanile, con interviste agli psichiatri di un reparto del Policlinico di Milano all’epoca pioneristico, perché dedicato per l’appunto ai casi d’emergenza per tentato suicidio. I toni da lezione moralizzatrice, che comunque valgono come ottima testimonianza di paternalismo d’antan, sono riscattati da Olmi con la vivacità di ritratto dei giovani stessi. Mentre le voci parlano usando un antiquato lessico medico, scorrono infatti dei volti di grande intensità, muti e sofferenti, e infine, negli ultimi minuti, vediamo prendere vita uno di questi volti che, sostituendosi alla voice over degli psichiatri, ci racconta la sua storia. Si tratta di una ragazza che ha provato a togliersi la vita in seguito a una serie di tragiche circostanze e si connota come uno straordinario bozzetto fatto di rimpianti e di nostalgia, di dolore e di abbacinante sofferenza; un ritratto tipicamente olmiano, soprattutto in quegli anni Sessanta di boom economico e di senso di estraneità e di spaesamento urbano. [a.a.]
9.12
Il Bignami del dolore contemporaneo dai migranti di tutto il mondo agli abitanti della striscia di Gaza che invece migrare proprio non possono. Presentato in concorso, Human Flow di Ai Weiwei scivola in pesanti cadute di estetismo e sconta anche l’esibizionismo del regista nel mettersi in scena nel backstage. Grande delusione. [g.r.]
Giovedì 31 agosto
21.38
Monito dolente per un’America che svende le sue icone nel nome del profitto, Il cavaliere elettrico di Sydney Pollack è forse la celebrazione perfetta, per quanto paradossale, per i divi Jane Fonda e Robert Redford, entrambi Leone d’Oro alla Carriera a Venezia 2017. Presentato questo pomeriggio in proiezione speciale, il film di Pollack racconta la fuga nella wilderness di un ex campione di rodeo (Redford) e del destriero Rising Star, entrambi finiti tra le maglie strette di un capitalismo rampante che li vuole adorni di lucine e anestetizzati. A seguire i due nella fuga è poi una reporter determinata (Fonda) i cui alterchi in pieno stile screwball comedy (con echi di Howard Hawks e Frank Capra) con il cowboy offrono a Pollack la possibilità di mettere in luce il suo innegabile talento di cesellatore di personaggi e dialoghi. Ma il suo obiettivo è in realtà lo stesso dei suoi protagonisti: rigenerare il (suo) cinema per liberarlo dalle strettoie dello showbusiness attraverso un’immersione nel western e nei suoi sempiterni valori. [d.p]
19.04
Si è aperta con un teen movie delizioso e dolente la 32. Settimana Internazionale della Critica, dove è stato presentato Fuori Concorso questo pomeriggio Pin Cushion di Deborah Haywood. Tenero, variopinto, spaventoso, il film è la storia di una madre e una figlia che si sono appena trasferite in una bigia e poco accogliente cittadina inglese. Lyn (la madre) ha una vistosa gobba sulla schiena, indossa abiti variopinti, adora i soprammobili a forma di animaletti. Iona (la figlia) ama le stesse cose e adora la madre, ma desidera ardentemente essere accettata dalle ragazze più popolari della sua nuova scuola. Questo innescherà una spirale di umiliazioni, falsità, ricatti, violenze fisiche e psicologiche. A cui forse solo una madre può porre termine. Fiaba gotica senza tempo su una teenager in cerca di affetto Pin Cushion riporta alla luce con inedita precisione le ansie e i turbamenti dell’adolescenza immergendole in uno stile pop-retrò fatto di pennellate di colore, abat-jour fiorati, gattini di pelouche. [d.p.]
17.22
Presentato fuori concorso, Zama della regista argentina Lucrecia Martel è un adattamento del romanzo storico dallo stesso titolo di Antonio Di Benedetto, considerata opera cardine della letteratura del Novecento argentino. La storia di un funzionario del governo coloniale spagnolo in un imprecisato limbo di terra sudamericana. Con il suo stile narrativo abituale, statico, tendente alla de-narrativizzazione, la regista argentina costruisce da un lato un poema visivo tra natura e cultura, dall’altro una riflessione sulla banalità del colonialismo. [g.r.]
17.08
Un edificante racconto morale sul Libano e i suoi mai sopiti conflitti, passati e presenti, armati e religiosi. Presentato oggi in concorso, The Insult di Ziad Doueiri parte da un evento banale: il litigio tra un capocantiere e il proprietario di un appartamento la cui grondaia non è a norma. Ma ci sono delle aggravanti da non sottovalutare: l’operaio è palestinese e vive in un campo profughi, il proprietario è cattolico, ha una moglie incinta ed è sostenitore del partito politico cristiano-democratico. E le elezioni sono vicine. Con una storia semplice da cui un Asghar Farhadi avrebbe potuto trarre un altro dei suoi capolavori, The Insult non riesce a strutturare un affresco composito che sia storico – politico e al tempo stesso umano e resta un susseguirsi di scene processuali con eventi melodrammatici. Il tutto condito da uno stile registico elegante e accattivante che fa sorgere qualche dubbio etico. [d.p.]
14.50
L’immaginario di Guillermo del Toro è liquido, in continua espansione, capace di inondare con la sua straripante potenza visiva generi, sistemi produttivi, contesti (apparentemente) lontani tra loro come la Spagna franchista de Il labirinto del fauno e gli Stati Uniti della Guerra fredda e dei diritti civili di The Shape of Water. Il legame tra le due pellicole è evidente, quasi simbiotico: il Mostro, il Male, la favola, l’illusione e il sogno… Del Toro torna su territori già battuti, si affida per l’ennesima volta alle suggestioni del cinema del passato, alla Settima arte come possibile lente d’ingrandimento e chiave di (ri)lettura della Storia. Del Bene e del Male. Una fragile eroina, un amore impossibile, una delle tante possibili declinazione della Resistenza, quando l’unione dei deboli – degli ultimi, dei reietti – può davvero fare la forza… [e.a.]
11.30
Dopo la spassosa ma esile boutade Dog Eat Dog, Paul Schrader con First Reformed porta in competizione a Venezia 2017 un apologo etico-ascetico sulla fede, la superbia, la grazia. Prendendo le mosse dalle sue ossessioni bressoniane, il regista di Affliction mette in scena vicenda di un pastore (un ottimo Ethan Hawke) che si ritrova ad amministrare una piccola parrocchia e la relativa comunità in seguito alla tragica morte del figlio. Quando un parrocchiano che aveva richiesto il suo aiuto si suicida, inizia per il religioso un lungo calvario, fisico e spirituale. Con uno script magistrale, che largo spazio offre alla parola, mettendone in discussione il potere salvifico, Schrader realizza con First Reformed un film summa della sua carriera, il primo colpo di fulmine di Venezia 2017. [d.p.]
11.22
Stranamente inserito tra le proiezioni speciali è stato presentato in mattinata il nuovo film di Andrea Segre, L’ordine delle cose, ritratto di un funzionario italiano che, per conto del Ministero degli Interni, gestisce e limita i flussi di clandestini dalla Libia all’Italia. Segre – come da suo film più celebre e premiato, Io sono Li – prosegue sulla strada del confronto con l’Altro, anche se stavolta si concentra proprio sullo sguardo italiano rispetto al mondo sconosciuto sull’altra sponda del Mediterraneo. L’Africa è un luogo dove andare per raccogliere un po’ di sabbia, comprare orecchini per la propria moglie facendo un salto alla medina e farsi tentare dal salvare una povera ragazza. L’ambiguità morale del protagonista è giusta e chiara, ma il racconto è annacquato da troppe sequenze poco significative e, sicuramente, sarebbe stata necessaria un po’ più di cattiveria. Un classico film impegnato così come viene concepito oggi, in cui la contiguità con la fiction TV “salva-coscienze” sembra sempre più evidente e pericolosa. [a.a.]
Mercoledì 30 agosto
18.02
Poteva andare molto peggio con un personaggio complesso come Christa Päffgen, nota ai più con lo pseudonimo di Nico. La cantante e musicista di origini tedesche immortalmente celebre per la sua collaborazione con i Velvet Underground viene messa in scena con coraggio, con giusta sfrontatezza – e qualche inevitabile incertezza – da Susanna Nicchiarelli in Nico, 1988, film d’apertura della sezione Orizzonti. La regista italiana, che veniva dal fallimentar/veltroniano La scoperta dell’alba, maneggia la figura di Nico nell’ultimo periodo della sua vita, gli ultimi due anni, dall’86 all’88, tra tour scalcinati e un figlio autodistruttivo, e dà giusto rilievo alla meravigliosa parte solista della sua carriera. Al fondo un senso di insicurezza e di inanità del vivere, che emerge però con fatica perché gravato da una prima metà troppo timida e incerta, sia narrativamente che visivamente. La protagonista Trine Dyrholm (volto del cinema danese, da Festen a Love Is All You Need) è superba e sa incarnare, con quel suo volto sgrondante umori incandescenti e dilanianti, ogni piccola sfumatura. [a.a.]
17.10
Presentato fuori concorso in questa prima giornata ufficiale del festival (dopo la pre-apertura di ieri con Rosita di Lubitsch), il documentario The Devil and Father Amorth rappresenta un nuovo tassello della ricerca di William Friedkin sulla possessione demoniaca, a 44 anni di distanza da L’esorcista. Con il suo abituale aplomb, ironico e sornione, Friedkin ci trasporta dalle location del suo celeberrimo horror del 1973 fino alla diocesi romana di Padre Amorth, stimato esorcista deceduto circa un anno fa. Il sacerdote accetta poi di fargli filmare il suo nono tentativo di esorcismo nei confronti di una donna, Cristina, che da almeno tre decadi manifesta i sintomi di una possessione. Tra interviste a “posseduti” e ai loro cari e incontri con uomini di chiesa e uomini di scienza, Friedkin porta avanti la sua indagine infondendo la sua grazia e il suo humour su una materia complessa e priva di certezze e che, proprio per le sue interconnessioni con la fede, le neuroscienze e la filosofia, molto è in grado di rivelare sulla natura dell’essere umano. [d.p.]
14.30
Archiviata la gradevolissima serata di preapertura, con la Mitteleuropa Orchestra che ha mirabilmente accompagnato la proiezione della versione restaurata di Rosita (1923) di Ernst Lubitsch, rimettiamo i piedi per terra con l’apertura ufficiale. Scelta sulla carta condivisibile quella di aprire Venezia 2017 con Downsizing di Alexander Payne, ibrido che mescola fantascienza, commedia, dramma, riflessioni su sovrappopolazione e decrescita, muri messicani, sogno a stelle e strisce, aspirazioni e grigia quotidianità. Un film di richiamo, singolare, indubbiamente stimolante nei temi.
La verve e l’ironia payneiana funzionano per una buona parte della pellicola, anche se Downsizing – facendo nostra la battuta di Dusan/Waltz – mostra una certa tendenza verso il patetico. La sceneggiatura di Payne e Jim Taylor inizia però a svicolare come Paul/Damon, lo scenario sci-fi resta sempre in superficie, gli snodi narrativi sono decisamente troppo elastici. Il bilancino di Payne questa volta sembra meno efficace. Decrescita a buon mercato. Peccato. [e.a.]